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RETROMANIA - Sentireascoltare

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sono qui, ma prima di addentrarvici, sono necessarie un<br />

paio di premesse: 1) dimenticate le sfuriate neo-progmetal<br />

della casa madre e tutta la ludica follia che le caratterizzava;<br />

2) tralasciate di concentrarvi sul suffisso<br />

“Orchestra” perché, pur supportato da un numero indefinito<br />

di collaboratori (fino a trenta!), questo è il progetto<br />

in solo di Langenus; da lui parte e con lui si conclude.<br />

Detto questo, infilarsi in questi due distinti album - non<br />

un doppio, ma due entità distinte seppur pubblicate<br />

all’unisono e per la stessa label - è come infilare la testa<br />

nella terra della tradizione che più americana non si<br />

può. Country, in primo luogo. Psichedelia, in secondo.<br />

Diciamo un 60/30 per esprimersi in percentuali, col restante<br />

10% sparso abilmente tra southern-rock, qualche<br />

spruzzata jazzy, del sano r’n’r virato deserto e anche<br />

qualche punto di weirdismi vari. Al centro del tutto c’è<br />

sempre e solo lui, però. L’insano chitarrista dread-locked<br />

e dal barbone rosso fuoco mostra come agire fuori dagli<br />

steccati sia una necessità più che un mero vezzo, muovendosi<br />

agilmente tra forme sonore che mai ci saremmo<br />

aspettati di sentire da uno come lui. Mai sopra le righe,<br />

mai rumorosa in senso stretto, eppure rivoluzionaria nel<br />

suo essere ancorata ad una tradizione “altra” rispetto al<br />

sentire musicale di Langenus. Uno che per inciso ha<br />

trafficato con l’underground diy americano più torbido<br />

con la Massive Distribution e che ora stravolge se<br />

stesso tra nenie country assolate e dilatate (You Need<br />

Sleep), desert-rock made in Meat Puppets (Paradise) o<br />

stomp-rock tutto fiati e sudismo (Nothing To Say).<br />

Se Good God sembra quello più regolare nelle sue forme<br />

classiche, qualche svisata avant e qualche sperimentalismo<br />

weird in più li rintracciamo in Infinite Ease: il rumorismo<br />

di fondo che apre la cavalcata di Beer Can, la<br />

psych solipsistica di Descaped, le lunghe dilatazioni di<br />

Hold Tite e Best Thing dicono di una eccentricità da intendersi<br />

etimologicamente come allontanamento da<br />

un centro indefinito e, insieme, fuga verso nuovi mondi<br />

da esplorare.<br />

(7.2/10)<br />

StEFano piFFEri<br />

Comma - ViSionario (mK rECordS, giugno<br />

2011)<br />

Genere: cantautorato wave<br />

Coniugare un certo gusto anglofono con la tradizione<br />

cantautorale italiana non è mai stata cosa semplice. Il rischio<br />

di cadere nel retorico, nel già fatto, nello scimmiottamento<br />

o peggio ancora nel plagio, incombe sovrano.<br />

Trovare una soluzione originale e innovativa, in questo<br />

genere, è sempre obiettivo particolarmente difficile da<br />

raggiungere. In questo senso Comma, all’anagrafe Pier-<br />

paolo Mazzulla, insieme al suo alterego di penna Andrea<br />

Orlando, ci riesce molto bene, inventandosi in Visionario<br />

una terza via che se da un lato ha sì tanti riferimenti arcinoti<br />

(Ivan Graziani, Mario Venuti, Moltheni), dall’altro<br />

ha la maturità artistica di riprenderli e scriverci sopra<br />

qualcosa che si posiziona sia su una linea di continuità<br />

che di rottura, prendendo in prestito lo stretto necessario<br />

per metterlo in mostra alla giusta occasione.<br />

Lo fa in un susseguirsi di viaggi interiori e intimisti, ma<br />

anche raccontandoci semplicemente la vita di tutti i<br />

giorni: quella semplicità disarmante che solo la quotidianità<br />

sa dare. La titletrack è la ricetta ideale per chi si<br />

avvicina a questo disco. Una sorta di guida all’ascolto, di<br />

premessa intenzionale: “solo un visionario può cambiare<br />

la realtà/solo un visionario può far crollare un muro”. Romantica<br />

ballata di quelle che non si ascoltavano da tempo,<br />

Tramonto è un ottimo esempio di come il cantautore<br />

calabrese sappia giocare molto bene con melodie ariose<br />

e immaginifiche, mai mero accompagnamento ma volto<br />

a formare con le liriche un connubio inscindibile. Granello<br />

di Cielo, lievemente dipinta da un solitario pianoforte<br />

da bistrot francese, è l’emblema della piacevole leggerezza<br />

di un disco che fa incontrare scanzonati momenti<br />

pop rock (Anime, Due Corpi) e fotogrammi di riscatto<br />

sociale (L’escluso).<br />

Canzoni nell’accezione più italiota del termine: da canticchiare<br />

e strimpellare, senza astruse pretese storiche<br />

ma con l’ambizione, tutt’altro che scontata, di emozionare<br />

ed emozionarsi, far riflettere riflettendo. E di questi<br />

tempi non è poca cosa.<br />

(6.9/10)<br />

gianluCa lambiaSE<br />

CSS - la libEraCiòn (CoopEratiVE muSiC,<br />

SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: pop<br />

Come gli Wombats un anno dopo, ma nel rispettivo<br />

ambito elettro-contaminato, i brasiliani CSS erano, nel<br />

2006, una perfetta cartina al tornasole di ciò che era<br />

andato nei primi Duemila. Mescolavano punk e pop,<br />

sintetico e rock e se avevano senz’altro avuto il merito<br />

d’allungare la vita all’electro-clash (Chicks On Speed)<br />

rappresentavano la classica bolla speculativa per chiunque<br />

- dall’ascoltatore indie-generico (Off The Hook) al sofisticato<br />

divoratore p-funk (Music Is My Hot Hot Sex, Let’s<br />

Make Love and Listen to Death From Above) e di videoclip<br />

(Alala), dal discografico (Sub pop, Warner) al produttore<br />

videogame (Fifa, Midnight Club: Los Angeles...) - volesse<br />

vederci/respirarci/viversi una fetta di fugace inizio millennio<br />

abulimicamente citazionista.<br />

Con il successivo Donkey, e gli 80s che iniziano a spin-<br />

highlight<br />

bEirut - thE rip tidE (pompEii rECordS, agoSto 2011)<br />

Genere: fanfara pop<br />

Un percorso in salita con una pausa prima della meta, così si configura oggi il cammino di Zachary Francis<br />

Condon all’indomani dell’uscita di The Rip Tide, album definitivo di un ragazzo che da caso indie si è<br />

trasformato in un icona pop al pari di Arcade Fire, The National e Sufjan Stevens.<br />

La sua è una di quelle classiche storie a lieto fine: prima c’è stata la Gulag<br />

Orkestar, l’inserimento in una effervescente scena di nuove espressioni balcaniche<br />

non ordinariamente etniche quali A Hawk And a Hacksaw e Matt<br />

Elliott, poi il consolidamento della formula trans-balcanica con il sophomore<br />

The Flying Club Cup, e quindi il momento di riflessione e la conseguente<br />

mosse di lato: un doppio eppì diviso tra divagazioni messicane con la Jimenez<br />

Band di Oaxaca e una manciata di vecchie tracce elettroniche composte<br />

in gioventù sotto il nome di RealPeople.<br />

Ora a quattro anni di distanza, abbiamo le canzoni di quest’album, scritte<br />

nell’inverno scorso a New York e lungamente testate dal vivo (East Harlem compare già in Beirut: Live<br />

at the Music Hall of Williamsburg del 2009). Zac partorisce la sua versione della serenata pop-folk per il<br />

Sud del Mondo, qualsiasi esso sia, un cuore imbevuto di struggente malinconia e fanfare sul perimetro,<br />

mansuete, bofonchianti, a far da sfondo o da snodo. La melodia è padrona.Strofe e ritornelli dunque al<br />

comando e, in cima, il crooning, severo e imperturbabile, perfetto, quasi monocromatico ma compensato<br />

egregiamente dal songwriting (specie nei brani basati sull’accompagnamento al piano - Vagabond).<br />

Sterilizzando gli ottoni (A Candle’s Fire, Payne’s Bay, Port Of Call, The Peaock), e surfando sull’effetto cartolina<br />

impolverata del West, Zac ne esce con un trittico di classici istantanei come la citata Santa Fe, unica<br />

traccia ad avere un arrangimaneto elettronico (omaggio alla città dove Zac è nato anche artisticamente),<br />

l’accorata East Harlem (per chitarrina e fiati in background) o l’ancor più solitaria Goshen 1 (piano, voce<br />

e crescendo ai fiati).The Rip Tide è l’album definitivo per Beirut. Trentatrè minuti di titoli di coda. Il poi<br />

si vedrà.<br />

(7.35/10)<br />

Edoardo bridda<br />

gere (Move), i ragazzi si reinventano senza lo stesso<br />

successo (Left Behind), abbandonano l’indie-electro più<br />

ruspante, compattano e puntano svogliatamente alle<br />

radio fm e a quell’America che li ha sempre visti con<br />

freddezza e, a tempo perso, iniziano a giocare d’anticipo<br />

sui Novanta (Rat Is Dead (Rage)). Risultato: consolidamento<br />

di una nicchia mainstream “di riserva” negli UK,<br />

due passi indietro nelle charts dei singoli (tranne in Finlandia!?)<br />

e sbuffo del mondo internettaro che reclama<br />

ricordi 80s da immaginario collettivo e non l’ennesimo<br />

revival dell’intorno 78-84 (il p-funk di Jager Yoga o la<br />

mutant disco Reggae All Night).Con La Liberación, i CSS<br />

ritornano alle origini ma ritentano la scalata americana<br />

con le proteiche I Love You e City Girl che strizzano l’occhio<br />

all’infantilismo di Katy Perry e alla fake riotness di<br />

Ke$ha (vocoder compreso), e provano a condirli con<br />

i triti trucchetti punky degli esordi (lisergiche MGMT<br />

o sintetiche nu rave). Sono episodi piuttosto isolati e<br />

fortunatamente con il tropicalismo scazzato e divertito<br />

le cose vanno nella dirazione giusta salvo scadere in ritornelli<br />

da corso all’acquagym (Echo Of Love) o banalizzazioni<br />

Chicks On Speed (You Could Have It All).<br />

E’ un vero peccato che metà dell’album se ne vada in<br />

questa direzione quando era stata una bella Hits Me Like<br />

A Rock con tanto di cameo di Bobbie Gillespie (Primal<br />

Scream) ad anticipare l’intero album tra morbidezze 80s<br />

e vintage funk. Il rischio più grave, del resto, è quello di<br />

mandare all’aria una seconda parte che matura i citati<br />

tagli 90s di Donkey con risultati soprendentemente<br />

adulti. Lovefoxxx migliora la cadenza di qualche strofa<br />

in slacker punk (Rhythm To The Rebels) e il bassista e produttore<br />

del disco Adriano Cintra ci mette l’ideale mix di<br />

strati produttivi (Fuck Everything).<br />

Non sono male i brasiliani quando macinano la verve<br />

urban che va dai Sonic Youth alle Throwing Muses<br />

passando persino per i Pulp e una coda al pianoforte<br />

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