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RETROMANIA - Sentireascoltare

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CAMPI MAGNETICI #6<br />

Matia Bazar Pere Ubu<br />

tango (Emi, marzo 1983)<br />

Anni di piombo, creste selvagge e tossicità, i Settanta:<br />

i Matia Bazar - band fondata a Genova nel ‘75 sulle<br />

ceneri dei soft-prog Jet - invece a pasturare l’auditorio<br />

del belcanto, sfornando un hit dietro l’altro, da Stasera...<br />

che sera! a C’è tutto un mondo intorno, da Cavallo bianco<br />

a Solo tu, concedendosi persino la vittoria a Sanremo<br />

con la sdolcinatamente epica ...E dirsi ciao. Artefice<br />

principale quel Piero Cassano dal fiuto sensibilissimo<br />

per le melodie sbranaclassifiche. Il cui abbandono nel<br />

1981 coinciderà con l’ingresso in formazione di Mauro<br />

Sabbione, quindi di un rinnovato ordine di riferimenti,<br />

intenzioni e idee. Vedete un po’ voi: Cassano diverrà la<br />

penna dietro al fenomeno Eros Ramazzotti, per il quale<br />

comporrà i principali successi, mentre Sabbione si presenta<br />

dichiarando di ispirarsi a Kraftwerk, Ultravox e<br />

Joy Division tra gli altri.<br />

Questo dovrebbe spiegare più o meno tutto ciò che accadde<br />

di lì a poco. Ma c’è una continuità nella frattura.<br />

La svolta new wave di Berlino, Parigi, Londra (1982)<br />

cambia sì scenografie, ambiti, obiettivi, tuttavia resta la<br />

stessa progettualità di fondo: confezionare un pop di<br />

pura evasione che non rinunci al fascino della complessità,<br />

percorrere il riflusso culturale dei tardi Settanta/primi<br />

Ottanta col più arguto dei disimpegni, lasciando che<br />

nello stanzino del melodismo italiano spirassero brezze<br />

arty, avanguardie robotiche e rigurgiti d’ogni epoca e<br />

latitudine. Tango è in questo senso il loro capolavoro<br />

e un capolavoro del pop italiano di ogni tempo. E non<br />

avrebbe potuto esserlo senza la sua verifica nazionalpopolare.<br />

Intendo, ovviamente, Sanremo. Quello dell’83, vinto per<br />

intendersi da Tiziana “quarto d’ora di celebrità warholiana”<br />

Rivale. I cinque Matia Bazar si presentarono sul<br />

palco dell’Ariston come alieni azzimati sul ponte di una<br />

crociera post-moderna, come nostalgici ciber-manichini<br />

in fuga da un patinato altroquando di telefoni bianchi<br />

e daiquiri letterari, mossi da un’eleganza algida e sincopata<br />

al cospetto d’un computer perentorio. Probabilmente<br />

quelli di Vacanze Romane furono i due minuti e<br />

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mezzo - questa la durata massima consentita, il pezzo<br />

fu incautamente sfumato all’altezza del secondo chorus<br />

- più contemporanei della storia del festivalone. Era, ed<br />

è, una canzone formidabile, satura di fantasmi felliniani,<br />

riverberi operistici, cabaret sintetico e brezze latine (tra<br />

queste ultime la dichiarata devozione per Yma Sumac,<br />

straordinaria vocalist peruviana celeberrima nei Fifties).<br />

Pezzo che ancora oggi ammalia malgrado l’usura, accomodante<br />

senza pretenziosità eppure frutto di intrigante<br />

stratificazione: ovvero, il pedigree del pop migliore. Inevitabile<br />

sceglierlo ad inaugurare la scaletta composita<br />

di Tango, ricca di ammiccamenti Japan (Intellighenzia)<br />

e Ultravox (I bambini di poi), fregole Kate Bush strinite<br />

Yellow Magic Orchestra (Palestina), ma soprattutto di<br />

techno-pop dal tiro ibrido, balzano e inquietante come<br />

Elettrochoc e Il video sono io. Tutta roba che sorprese per<br />

la padronanza quasi irriverente, viatico per la definizione<br />

d’una calligrafia unica segnata dall’utilizzo disinvolto<br />

di espedienti, trovate testuali all’insegna d’un para-nonsense<br />

degno del Panella prossimo venturo (Tango nel<br />

fango) e - ovviamente - del soprano duttile ed enfatico<br />

però mai fuori luogo di Antonella Ruggiero.<br />

Una formula che non seppe ripetersi allo stesso livello<br />

nel pur buono Aristocratica (1984), dopo il quale<br />

Sabbione concluse la sua troppo breve avventura nella<br />

band. Che da allora non mancò di cogliere ulteriori successi,<br />

ma sempre più sulla scorta d’un passato - ahnoi,<br />

ahiloro - irripetibile.<br />

StEFano SolVEnti<br />

classic album<br />

thE modErn danCE (blanK, gEnnaio 1978)<br />

Quando si era ragazzini era normale leggere all’italiana<br />

quello strano insieme di lettere, Pere Ubu, un nome che<br />

suonava così bene eppure così maledettamente misterioso.<br />

In una parola: affascinante. Solo qualche anno<br />

più tardi sarebbe stato invece obbligatorio citare Alfred<br />

Jarry, francese di fine Ottocento autore di un teatro<br />

grottesco, a tratti anche brutale e osceno, che di fatto<br />

anticipava il surrealismo con questa strana cosa chiamata<br />

patafisica, “la scienza delle soluzioni immaginarie<br />

e delle regole che governano le eccezioni”, che aveva già<br />

stregato Robert Wyatt e i Soft Machine. Riascoltando a<br />

33 anni dall’uscita e a quasi 10 dal primo ascolto personale<br />

The Modern Dance però, tutti i fattori contestuali<br />

possibili (e attorno c’erano Television, Patti Smith, PiL,<br />

Joy Division, Pop Group, Gang of Four, Talking Heads,<br />

la No Wave) non superano mai il rango di indizi di una<br />

grandezza e di una irripetibilità che sono da cercare<br />

semplicemente in una ispirazione speciale.<br />

La danza moderna è un agitarsi scomposto, muoversi<br />

con l’eccitazione febbrile di chi sa di poter perdere tutto<br />

ma anche che questo tutto è niente. Il disco continua ed<br />

espande il mood apocalittico - fin dai titoli - inaugurato<br />

dai singoli 30 Seconds Over Tokyo (1975) e Final Solution<br />

(1976), con un concept paranoico dove la condizione<br />

post-industriale (gli Ubu nascono dalle ceneri dei Rocket<br />

from the Tombs, in quello stesso Ohio che sa poco<br />

di fattorie e tanto di ciminiere e fumi e che in parallelo<br />

darà i natali ai Devo) fa da cornice a storie d’amore tutte<br />

amare, deluse, concluse. Parable di una non più arable<br />

land, di una terra non più addomesticabile, desolata,<br />

sterile, fredda, indifferente, morta ammazzata. La danza<br />

moderna è un folk urbano messo ad essiccare under<br />

a big black sun (Over My Head è praticamente un desert<br />

western), è un punk-rock spigoloso e stilizzato, in bianco<br />

e nero, come la copertina: la batteria essenziale di Scott<br />

Krauss, il basso modellatore di Tony Maimone, le rasoiate<br />

synth di Allen Ravenstine, la chitarra-camaleonte<br />

di Tom Herman, che ora tratteggia con piccoli tocchi<br />

arpeggi sottili, ora innesca brucianti riff punk, ora take<br />

quasi-reggae alla Redondo Beach (Humor Me, che chiude<br />

beffarda, riuscendo nell’impresa di non lasciare l’amaro<br />

in bocca). Sopra tutto, ovviamente, la voce di David<br />

Thomas, figlio di un professore di letteratura inglese, un<br />

“ciccione che canta come un mingherlino”, dirà Stefano<br />

Tamburini/Red Vinyle in una intervista con Arto Lindsay,<br />

vocalist e lyricist delirante come sarà poi il Black<br />

Francis dei Pixies e come lui perfetta trasfigurazione<br />

musicale dell’ebete Eraserhead lynchiano, a chiudere<br />

una circolarità di ferino isterismo che ha nel Capitano il<br />

proprio capostipite e vate.<br />

Dalla sirena da evacuazione di Non-Alignment Pact, alle<br />

sfrangiature avant della intro fiatistica di Laughing, da<br />

quella Street Waves che è praticamente la versione postpunk<br />

del blues di Beefheart (il cui spirito aleggia nelle<br />

chitarre sghembe di tutti gli interludi strumentali dell’album)<br />

e di Electricity in particolare, alla teatralità espressionista<br />

di sceneggiate come Chinese Radiation, dall’inno<br />

“blank generation” Life Stinks (firmata dal primissimo<br />

chitarrista dei Pere, Peter Laughner, morto di eccessi a<br />

24 anni; per lui un toccante requiem scritto dall’amico<br />

Lester Bangs), alla marcia arrancante Real World, vicinissima<br />

ai pezzi più scuri e geometrici dei Devo di Are We<br />

Not Men . Giù giù e giù fino a quel Sentimental Journey<br />

che è un incubo claustrofobico tra Pierre Schaeffer,<br />

ovviamente Beefheart, gli Stooges di Fun House e i<br />

Residents. Senza mezzi termini, un capolavoro.<br />

Il percorso dei Pere Ubu sarà ancora splendido almeno<br />

per tutti i primi anni Ottanta e regalerà anche inattesi<br />

recenti colpi di coda. Quello del Thomas solista, sempre<br />

più o meno affiancato dai due fidi ragazzi pallidi Keith<br />

Moliné e Andy Diagram, discontinuo e irregolare, sospeso<br />

tra sperimentazioni vocali, teatro e ripetizione di<br />

sé; ma illuminato da lampi di vera ispirazione poetica<br />

e sempre rivolto alla caparbia esplorazione di luoghi<br />

immaginari - Erewhon, Spoon River contemporanea,<br />

non meno desolata dell’Ohio della gioventù - che sono<br />

specchi obliqui del reale.<br />

gabriElE marino<br />

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