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RETROMANIA - Sentireascoltare

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Lucrecia Dalt<br />

—Compendio di musica<br />

flessibile—<br />

Colombiana ma di stanza a Barcellona,<br />

con all’attivo collaborazioni importanti<br />

con F.S.Blumm e James Pants: genesi di<br />

Lucrecia Dalt<br />

Turn-On.<br />

Con le sue riletture di brani di Iggy Pop, Simon & Garfunkel,<br />

Burt Bacharach e Osvaldo Farres, Cuatro Covers – in<br />

spazio recensioni – è solo l’ultimo tassello del percorso<br />

musicale multiforme di Lucrecia Dalt. Una biografia,<br />

la sua, che ingloba i classici, si perde in un’adolescenza<br />

trip-hop per poi uscirsene con una formula autarchica e<br />

minimale, sussurrata e imprevedibile, in bilico tra post,<br />

ambient, kraut, elettronica. E’ il cambiamento la struttura<br />

portante del suono: pochi tratti ma fondanti, fuori dai<br />

facili punti di riferimento e dentro un equilibrio coerente<br />

e minimale, mutevole ma al tempo stesso credibile.<br />

Coordinate stilistiche che si mescolano a geografie<br />

già di per sé peculiari, lei colombiana di Medellín trasferitasi<br />

armi e bagagli a Barcellona. Con un’infanzia trascorsa<br />

in una famiglia che con la musica ha sempre trafficato:<br />

«Mio nonno quand’era piccolo suonava la batteria e poi<br />

è diventato anche un’ottimo musicista di maracas; mia<br />

nonna suonava la chitarra; mio zio da ragazzino costruì<br />

un sistema artigianale per il karaoke per cantare le canzoni<br />

di Nino Bravo. In casa si ascoltavano Beatles, Jimi Hendrix,<br />

Doors, Pink Floyd, Bob Dylan, Velvet Undergrond. Tutti artisti<br />

che rinconduco a momenti diversi della mia vita». La<br />

semina è feconda ma il raccolto genera frutti insospettabili.<br />

Se è vero che a metà anni Novanta una cassettina<br />

clandestina dei Portishead rivela alla Dalt – al secolo<br />

María Lucrecia Pérez López - un mondo ai confini con<br />

l’elettronica, il beat sintetico, le macchine, di cui prima<br />

non si aveva nemmeno percezione. Il passaggio successivo<br />

è un praticantato compito tra vinili e giradischi, per<br />

poi approdare al looping via laptop e alla musica suonata<br />

animati da una spinta creativa «introspettiva, solitaria,<br />

ma al tempo stesso eccitante».<br />

Gli esordi discografici differiscono e non poco dalla<br />

Dalt contemporanea. Acerca (Series, 2005) mostra una<br />

musicista più interessata alla programmazione che al ricorso<br />

a una strumentazione tradizionale. Dieci brani che<br />

citano la lezione di certa indietronica tedesca versante<br />

Notwist (con qualche vaga cadenza dubstep/ambient),<br />

presagiscono quel perfezionismo formale che diverrà un<br />

tratto distintivo ma ancora non sorprendono per originalità<br />

e carattere. Preferendo un rassicurante tappeto sintetico<br />

alle geometrie instabili e difficilmente circoscrivibili<br />

che verranno di lì a poco. Anche il passo successivo Like<br />

Being Home (Series, 2007) sa di terreno di prova, un EP<br />

dall’anima folktronica nobilitato da un approccio pop fin<br />

troppo lineare, capace tuttavia di mostrare anche qualche<br />

segno di un cambiamento in atto, di un’ elasticità<br />

potenzialmente avventurosa.<br />

L’album che sancisce la maturità artistica arriva due<br />

anni dopo e si chiama Congost (Pruna Recordings, 2009):<br />

«Ho fatto tutto con un laptop e tre microfoni, mettendo<br />

insieme il suono di chitarra, basso, voci, tamburello, violoncello,<br />

tromba, xilofono, strumenti di legno, giare, bottiglie,<br />

spugne, borse di plastica, percussioni improvvisate, registrazioni<br />

ambientali e samples di batteria. E’ il mio disco<br />

più personale e consapevole. Ho scritto le melodie e ho registrato<br />

e mixato tutto il materiale, ad eccezione di alcuni<br />

interventi strumentali di amici». Voce sospesa in un limbo,<br />

brani spruzzati di psichedelia (Ceniza), ambient (Zig Zag)<br />

e claustofobie assortite kraut-wave (Too Much Light), ma<br />

soprattutto un sentire che preferisce astrarre, lavorare<br />

sul mood, piuttosto che cedere alle strutture organizzate<br />

troppo ripetitive o alla forma canzone tradizionale:<br />

«Quello che passa è quello che mi sembra giusto e coerente<br />

sul momento. Col suono cerco di non rinchiudermi in una<br />

zona troppo “confortevole”. Trascorro molto tempo cercando<br />

nuove combinazioni di effetti per riuscire ad ottenere<br />

elementi inediti dalla stessa sorgente».<br />

Tutto scorre e tutto si modifica. Al punto che lo split<br />

Pasillo uscito l’anno scorso in condivisione con i Radioaisle<br />

sembra ridefinire ancora una volta le direttive stilistiche.<br />

Scegliendo una secchezza minimale, certe chitarre<br />

scarnificate su bassi inquietanti, un’elettronica sempre<br />

più trasparente e complementare. Un fil rouge ripreso<br />

dal Cuatro Covers citato in apertura che mostra una personalità<br />

autonoma e votata alla contemporaneità, nella<br />

consapevolezza di ciò che le accade attorno: «Mi sento<br />

particolarmente vicina a una certa scena di Los Angeles<br />

perchè ho collaborato col Dublab e ammiro musicisti come<br />

Nite Jewel, Julia Holter, Dam-Funk, Daedalus. Apprezzo anche<br />

Luke Sutherland, James Pants, Daisuke Tanabe, Gudrun<br />

Gut, Felix Kubin, Beak>, Momus, Hauschka».<br />

Fabrizio zampighi<br />

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