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RETROMANIA - Sentireascoltare

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“Aveva la capacità di accettare la sempre maggiore frequenza di corpi stesi sulle rotaie<br />

e di trasformarla in un concetto filosofico, per così dire: il mondo stava andando in<br />

rovina, precipitava a capofitto in un qualcosa di guasto e cattivo, ben lontano da ciò<br />

che un tempo era saldo e solido e, ovviamente, tenuto insieme con acciaio e legno e<br />

pietrame – precisi diritti di precedenza, orari solo di rado traditi”.<br />

Episodi incendiari assortiti – David Means<br />

episodi inCendiari assorTiTi<br />

Dimenticate i litigi, le pause infinite, gli addii inconsapevoli. Scordatevi gli<br />

anni Novanta. Dimenticate la band di una vita, fermatevi e pensate all’incarnazione<br />

dell’indie rock primordiale, definitivo già nell’essenza, nell’idea,<br />

come doveva essere. Rimodella(tela) sulla vostra pelle, devasta(tela) come<br />

fosse la vostra sola educazione sentimentale ai tempi del senza internet, ma<br />

con l’aggiunta del tutt’altro. Vi riscoprerete adulti, e con voi, tra dicotomie di<br />

passato avvolgente e futuri indistinti, gli eroi dell’antichità rock del vecchio<br />

continente, un po’ malconci ma vivi. Vivi. Escludendo I’armata britannica,<br />

ad emergere ritroverete solo un nome spiccare tra (pochi) altri, profetico<br />

ed esibizionista: dEUS. Il gruppo belga, nonostante le devastazioni di line<br />

up di fine secolo scorso, rappresenta una delle poche istituzioni rock a tutto<br />

tondo (e spigolature) a livello europeo. Una certezza invasata costellata da<br />

(quasi) capolavori indiscussi, seppur antichi; un viaggio per nulla scorrevole<br />

tra la schizofrenia di Worst Case Scenario e la calma apparente di Ideal Crash,<br />

passando per la consapevolezza dell’imprevedibilità di In A Bar, Under The<br />

Sea. I Novanta a risplendere di luce propria.<br />

E poi sei anni di silenzio, inevitabili per rispedirti nel dimenticatoio o<br />

nell’elevarti a culto, necessari se del tuo gruppo ne hai fatto ragione di<br />

vita. Pocket Revolution, del 2005, li rilancia nella mischia, un po’ appannati<br />

e confusionari (ricordate Bad Timing: l’inizio della seconda esplosione),<br />

conveniente trampolino di lancio per Vantage Point, del 2008, così ruffiano<br />

e inevitabilmente ammiccante da risultare amorevole anche a chi fan non<br />

era. Un trittico chiuso (in sei anni, un’inezia in casa dEUS, sei album in più<br />

di vent’anni) ora da Keep You Close (in uscita il 19 settembre), a costituire il<br />

tassello mancante, la saldatura definitiva figlia di una line up consolidata<br />

e da un leader mai così leader, collante tra collante, il pavoneggiante Tom<br />

Barman, uomo della provvidenza dieci anni fa a ricostruire il tutto, come<br />

prima, tra i cocci del successo.<br />

Dell’ultimo album e di tutt’altro, ne abbiamo parlato con il chitarrista<br />

Mauro Pawlowski, Deus ex machina sonoro del rock belga (come dimenticare<br />

le intuizioni malate dei The Love Substitutes e l’intimità noise dei<br />

Club Moral?), che rappresenta il lato drammatico (musicalmente) e sornione<br />

(umanamente) dei nuovi dEUS; il sole incalzante di Grugliasco (città-centro<br />

industriale alle porte di Torino) ce lo presenta di nero vestito, devastato da<br />

lunghi balbettii e innocui silenzi (è reduce da sedici ore di tour bus), così<br />

attento nel misurare le parole, anche quelle dimenticate. Con lui si gioca<br />

d’intuito, come con l’amalgama sonoro stratificato dei dEUS, si indovina.<br />

Partiamo da lontano e dall’odiato: le definizioni e le etichette improvvisate.<br />

Tra l’eleganza del movimenTo<br />

Keep You Close potrebbe costituire in casa dEUS, l’album della maturità; sicuramente<br />

non quello della consacrazione, ride Pawlowski che poi improvvisamente<br />

serioso annuncia, sì, siamo diventati una band matura. Lo siamo<br />

sempre stati, analizza scivolando nell’arroganza piacevole. Quando si tratta<br />

di recensire un loro album risuona l’eco delle antiche parole di Barman, la<br />

definizione della loro musica, come due facce della stessa medaglia. Una spontaneità<br />

e naturalezza che li porta a concepire in un continuum sonoro unico,<br />

digressioni sonore velate di melanconia, vedi i due estremi dell’ultimo disco<br />

a costituirne l’ossatura cesellata: dalla melodia trafitta dal dolore dell’iniziale<br />

Keep You Close alla nera e devastata d’organi, Easy, passando per veri e propri<br />

anthem: ammiccanti prima, il singolo Constant Now, decisamente rock’n<br />

roll, se non baldanzoso (ci passino il termine mainstream), e quindi l’ovvietà<br />

decisa di Dark Sets In.<br />

Chiedo una definizione. In una parola? Bellezza, risponde pronto. Si fa improvvisamente<br />

pensieroso. Con l’ultimo album ci siamo soffermati su uno<br />

stato d’animo più definito, più intimo e personale. Introspettivo. Anche se l’unica<br />

parola decisiva nel rappresentare questa nostra fase è la ricerca ostinata<br />

della bellezza. Abbiamo scritto molta musica nell’ultimo anno, un paio di ep<br />

usciranno entro la fine del 2011 - confida Pawlowski - tutta accomunata da<br />

uno spirito diverso rispetto ai precedenti lavori, disomogenei e in qualche modo<br />

schizofrenici.<br />

La scrittura delle canzoni risente di un approccio più caldo e melanconico,<br />

per nulla rassegnato, ma in qualche modo consapevole del proprio stato<br />

umano, sofferente o ottimistico non ha importanza, verrà da sé. In una parola,<br />

liquido, volubile, a cos’è dovuto? Pawlowski parte da lontano: Quando<br />

spendi molto – o forse troppo - tempo assieme, si condividono gli stessi umori,<br />

le stesse emozioni. Si crea un vortice in cui diventi parte di un processo creativo<br />

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