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RETROMANIA - Sentireascoltare

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o Boogie Boy che gettano furbamente l’amo nelle mode<br />

dance londinesi (gesto non plateale come nei Magnetic<br />

Man, ma trattasi della stessa intuizione destinata al<br />

successo).<br />

Il versante bass storico è comunque coltivato, con Lucky<br />

e New York City a rispolverare quelle forme già scolpite<br />

ad arte nel My Demons di Distance. Il vero faro-guida<br />

però continua ad essere Skream, non solo per il featuring<br />

d’autore in Untitled ma in generale per il carattere<br />

d’approccio alla materia dubstep: non si azzardano salti<br />

nel vuoto ma spostamenti di rotta nel complesso contenuti,<br />

sempre accompagnati da un’ossatura comunque<br />

classica. Se Outside The Box vi aveva preso male per le<br />

derive eccessive, potrete apprezzare il maggior rigore di<br />

questo suo discendente. Ma non provate a lamentarvi<br />

per mancanza di innovazione.<br />

(6.7/10)<br />

Carlo aFFatigato<br />

Son lux - WE arE riSing (antiCon, luglio<br />

2011)<br />

Genere: electro-pop<br />

Ryan Lott c’aveva messo tre anni per registrare, tutto da<br />

solo, pezzetto dopo pezzetto, il buon debutto At War<br />

With Walls & Mazes (2008). Ne ha fatti passare altrettanti<br />

per dare alle stampe il seguito, e però lo ha registrato in<br />

meno di un mese, rispondendo al ‘call of paper’ del blog<br />

All Songs Considered del network National Public Radio,<br />

che gli ha chiesto appunto di realizzare un intero album<br />

in soli 28 giorni (febbraio 2011).<br />

Detto, fatto. ‘With a little help from his friends’ My<br />

Brightest Diamond, DM Stith e yMusic Sextet (e cioè<br />

Antony, Sufjan Stevens - entrambi dichiarate influenze<br />

del progetto Son Lux - e The National). Sulla carta poteva<br />

essere un pastrocchio tremendo, ma evidentemente<br />

i pezzi c’erano e, per una volta, la necessità è davvero<br />

stata madre dell’invenzione: perché ne sono venuti fuori<br />

intensi gioiellini electro-pop intrisi di romanticismo decadente<br />

come Flickers, All the Right Things, Rising, Let Go<br />

(con i suoi fiati giocherelloni) e Rebuild.<br />

Questo disco (ma Son Lux più in generale) ricorda un po’<br />

gli Sparks, capace com’è di mettere assieme con grande<br />

equilibrio formale, pur tra mille eccessi, colore (leggi pop:<br />

melodia e cantabilità, kitschume anni Ottanta) e dolore<br />

(leggi teutonico: cori lirici, densità orchestrali, Nico).<br />

Ferma restando l’antipatia che il personaggio può anche<br />

suscitare.<br />

(7.2/10)<br />

gabriElE marino<br />

Sun araW/EtErnal tapEStry - night<br />

gallEry (thrill JoCKEy, agoSto 2011)<br />

Genere: psych-kraut<br />

La joint-venture che non t’aspetti assume le sembianze<br />

di un carrarmato psych-rock delirante e notturno. Da un<br />

lato, la combriccola di freaks psych-kraut cresciuta esponenzialmente<br />

negli ultimi anni, soprattutto col passaggio<br />

alla Thrill Jockey (vedi alla voce Beyond The 4th Door);<br />

dall’altro, uno degli hypna-eroi primigeni, quel Cameron<br />

Stallones a.k.a. Sun Araw uso a mischiare psych e deliqui<br />

hypnagogici tra Magic Lantern e, appunto, la presente<br />

sigla in solo.<br />

Galeotto, per l’unione di forze in apparenza distanti -<br />

corposi e kraut-spacey i primi, drogato e lento il secondo<br />

- fu il festivalino Neon Comune Fest curato dalla NNF<br />

nel 2007, in cui l’allora Magic Lantern Stallones saldò<br />

una amicizia rinverditasi ogni qualvolta i tre di Portland<br />

scendevano a suonare - e condividere il palco, ovvio - in<br />

California.<br />

L’occasione per questo Night Gallery è invece legata al<br />

SXSW dello scorso anno, quando dopo un pomeridiano<br />

live congiunto in un parcheggio, gli ET invitarono Sun<br />

Araw a registrare un live in una radio studentesca. Il risultato<br />

è in queste quattro omonimi movimenti suonati live<br />

in circolo con i Tapestry in formazione allargata (Ryan<br />

Carlile al sax, Yoni Kifle al basso completano il quintetto)<br />

e Stallones a chiudere il cerchio con le volute sonnacchiose<br />

della sua chitarra. In realtà, viste anche le forze<br />

numericamente in campo, a prendere il sopravvento è la<br />

psych reiterata dei primi, come nella ascensionale Night<br />

Gallery I - lontani echi orientali pian pianino soffocati in<br />

effluvi di wah-wah - o nella Spacemen 3 oriented Night<br />

Gallery II. La conclusiva, fluviale Night Gallery IV dilata<br />

ancor di più gli orizzonti dell’estemporanea formazione<br />

abbandonandosi tra assonnate volute di fumo e sfocati<br />

paesaggi da psichedelia orientale, mettendo in evidenza<br />

la mano calda di Stallones. Estemporaneo quanto si vuole,<br />

ma Night Gallery è più che un divertissement tra amici.<br />

(7/10)<br />

StEFano piFFEri<br />

tarWatEr - inSidE thE ShipS (burEau-b,<br />

SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: inDietronica, wave<br />

Duo di culto fino alla metà dei Duemila su Kitty YO, fiore<br />

all’occhiello del Morr sound a cavallo tra il 2005 e il 2007,<br />

i berlinesi Tarwater hanno disegnato, parallelamente a<br />

una compagine più allargata musicisti tedeschi e non,<br />

un proprio modo di traghettare le passioni giovanili (il<br />

post punk più elettronico, il kraut rock) alla fascinazione<br />

techno (nonché ai lavori di sonorizzazione per cinema<br />

e teatro) in un’indietronica visuale fatta di folk/pop/reading<br />

e fiera germanicità. Nei Noughties hanno assistito<br />

all’opus e al declino del genere che avevano contribuito<br />

fortemente ad imporre e deciso di continuare per la loro<br />

strada stoici, rilassati, seduti su un filo di depressione ma<br />

caparbi, a loro modo entusiasti, pronti a soppesare nuovamente<br />

l’intingolo, togliendo, dosando, aggiungendo<br />

nuovi e vecchi elementi.<br />

Accasati nella tedeschissima Bureau B (Faust, Kreidler,<br />

Cluster, Roedelius...), Ronald Lippok e Bernd Jestram, coadiuvati<br />

da un musicista Klezmer come Detlef Pegelow<br />

conosciuto ai tempi di Ornament & Verbrechen (1980-<br />

1983), arrivano dunque all’undicesimo album sulla scorta<br />

di una sintesi sonora che conserva tuttora il fascino<br />

dell’artigianato di qualità e un’indubbia weltanschauung.<br />

Mettono tra parentesi il pop e gli spazi aperti americani<br />

di Spider Smile, i Tarwater di Inside The Ships. Si dedicano<br />

un suono elettroacustico maggiormente pastoso,<br />

intarsiato di nuovi elementi “brass” apportati, appunto,<br />

da Pegelow. Lungo la tracklist s’infilano tuba, sassofono,<br />

tromba e trombone, tutti ottimamente trattati e fusi da<br />

un mix che ne esalta la tattilità. Il jazz dunque, s’avvicina<br />

alle squadre kraute, alle drum machine, ai synth e<br />

ai vocoder e, naturalmente, alla chitarra 80s di Jestram.<br />

Ne emergono canzoni di paciosa ma fiera retroguardia<br />

tra le consuete cover - Do the Oz (cover di John Lennon<br />

and Yoko Ono) e Sato Sato (prima canzone a contenere<br />

liriche in tedesco del duo nonché adattamento di un testo<br />

dei DAF di Alles Ist Gut) - e inediti - Inside the Ships, la<br />

ballad wave+theremin Radio War, la residentsiana There<br />

Never Was A Night o la notturna Place At 5 AM.<br />

All’inizio, ovvero due anni fa, il disco doveva rappresentare<br />

un concept, una Space Opera, poi l’idea dell’album<br />

si è trasformata in un contenitore aperto e ricco di smalti<br />

kraut-etno-jazzati già noti alla discografia del duo ma<br />

approfonditi in maniera differente, lontani cioé dagli<br />

umori trip hop di Atoms, Suns & Animals (o dalla ricerca<br />

di un Mapstation). Quest’ultimi sono gli aspetti<br />

più interessanti di un lavoro mediano da punto di vista<br />

lirico (eccezion fatta per la bella Sato Sato) ma riuscito<br />

negli excursus strumentali che, al solito, sono anche finiti<br />

nell’ennesimo cortometraggio indipendente (The Eagle<br />

Is Gone di Mario Mentrup and Volker Sattel).<br />

(6.8/10)<br />

Edoardo bridda<br />

thE drumS - portamEnto (moShi moShi,<br />

SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: pop<br />

Odiavano la definizione di One Hit Wonder. Hanno sempre<br />

affermato che volevano essere presi sul serio. Non<br />

erano una band di pin up (e basta). L’idea di un’America<br />

ossessionata dalla California e dagli anni 50, dal surf e<br />

l’innocenza di quegli anni, era stata spontanea ma consapevole,<br />

come pure il formato surf-pop condito con<br />

passione vintage e amore per gli eighties, tutto curato<br />

in ogni aspetto: dal taglio cinematico in produzione, ai<br />

videoclip (Let’s Go Surfing), alle buffonate on stage e al<br />

taglio di capelli.<br />

Di converso, l’Inghilterra, come al solito ossessionata<br />

dalle istituzioni e dai passaggi di consegne li aveva incoronati<br />

troppo presto. A scatola chiusa, aveva comprato<br />

90.000 delle 200.0000 copie dell’esordio di una band che<br />

non era esattamente l’erede degli Smiths.<br />

Melodicamente, i Drums avevano un tiro pop davvero<br />

potente, ma vivevano di singoli e le strofe di Morrissey<br />

erano ancora più lontane così come un futuro, all’epoca,<br />

quantomai incerto. Ci sono state parecchie litigate. Una<br />

defezione. Ed ora il ritorno proprio con un bel singolo,<br />

Money, che se è il miglior trait-d’union con la solarità<br />

dell’esordio, è anche il più diretto confronto con il Moz<br />

che Pierce e Garham abbiano mai tentato.<br />

Proprio in senso smithsiano, Portamento segna una svolta<br />

più meditata e sofferta della passata formula. “erano<br />

happy times, ora è calato l’inverno (da In The Cold)” recita<br />

un agrodolce Pierce su testi autobiografici e un’esecuzione<br />

che si è fatta più severa, ampliando le parti elettroniche<br />

e variegando l’impianto.<br />

I cambi di line up - l’abbandono di Adam Kessler e la<br />

sua sostituzione da parte del batterista Connor Hanwick,<br />

il passaggio di Graham ai synth, e la drum machine al<br />

posto della batteria - hanno sicuramente condizionato<br />

lo sviluppo di un album che è in definitiva il classico<br />

sophomore ma anche il segno di una band maturata<br />

che perfeziona gli equilibri e cerca nuove vie espressive.<br />

Alla mancanza di hit folgoranti, risponde una scaletta più<br />

omogenea, al carattere spensierato e cinematico dell’eppì,<br />

una scrittura più solida.<br />

I Drums non hanno perso il tocco leggero, lo hanno caricato<br />

di una (auto)produzione più accurata, smalti postpunk<br />

mancuniani (gli ovvi Joy Division e New Order) e<br />

qualche fuori programma synth-kraut memore - parole<br />

loro - di vecchi ascolti Kraftwerk e Windy & Carl.<br />

Inaspettatamente, Portamento nel suo essere ombroso<br />

e malinconico finisce per essere un disco riuscito, l’avvio<br />

di una carriera di prospettive e canzoni da diario.<br />

(7.1/10)<br />

Edoardo bridda<br />

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