RETROMANIA - Sentireascoltare
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antonEllo brunEtti - opEn to ChangE<br />
(autoprodotto, maggio 2011)<br />
Genere: sonGwritinG rock<br />
Chitarra acustica da folk singer vissuto, qualche nota di<br />
piano ad aggiungere un velo di condensata autorevolezza<br />
e per finire un’eterea sognatrice voce sufficiente a<br />
toccare le corde più intime dell’animo. Potrei fermarmi<br />
qui per raccontare questo debutto solista più che valido<br />
del calabrese classe ’85 Antonello Brunetti. Ma siccome<br />
il disco consta anche di un’altra metà, chiamiamolo<br />
lato B, più elettrico, caotico e meno studiato, tocca fare<br />
un distinguo. Buona parte di Open To Change si può<br />
facilmente ricondurre ai soliti noti del songwriting (Jeff<br />
Buckley, Nick Drake, Joni Mitchell), e in definitiva risulta<br />
essere questa la prospettiva più compiuta, felice e<br />
meglio resa del disco; brani come Underwater o My Will<br />
Becomes Weird ci restituiscono un cantautore in grado di<br />
disegnare originali e fascinose melodie e a pennellarci<br />
sopra testi taglienti, sognanti e provocatori.<br />
C’è poi l’altra metà, più italiota, che ha riferimenti vaghi<br />
(Carmen Consoli, Paola Turci) e che pecca di quell’accuratezza<br />
nella resa sonora e negli arrangiamenti che<br />
invece è motivo di vanto della prima parte. Nello stato liquido,<br />
Ordine, Crowded Train, appaiono come frammenti<br />
capitati per caso o per sbaglio in una raccolta di belle<br />
canzoni scolpite con gusto e passione per un genere<br />
che Brunetti non si limita ad imitare, ma che riesce ad<br />
interpretare e a riscrivere con originalità e coraggio. Il<br />
genere è dei più difficili, va detto. La concorrenza è spietata.<br />
Open To Change potrebbe rappresentare un buon<br />
viatico per smuovere le acque, per catturare l’attenzione<br />
di qualche discografico, per segnalare la propria presenza<br />
in un mare affollatissimo. Ma certi esperimenti, per il<br />
momento, meglio abbandonarli.<br />
(6.4/10)<br />
gianluCa lambiaSE<br />
apparat - thE dEVil’S WalK (mutE,<br />
SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: post-rock<br />
Dell’ultima svolta acustica di Apparat vi avevamo già<br />
dato doverose anticipazioni con le news e con un’intervista<br />
incentrata sul sound della formazione band. E a<br />
chi voleva toccare con mano, bastava assistere a uno<br />
degli ultimi live per far balzare subito agli occhi il nuovo<br />
assetto: Sascha Ring al centro della scena, chitarra in<br />
mano e microfono alla bocca, e i membri restanti dedicati<br />
all’accompagnamento strumentale, che tradotto in<br />
termini sonori significa componente elettronica ridotta<br />
all’osso e un profilo post-rock in bilico tra Sigur Rós e<br />
Coldplay, che faceva sentire la mancanza del carattere<br />
più sperimentale dell’artista berlinese.<br />
Arriva The Devil’s Walk, realizzato in collaborazione con<br />
Patrick Christensen dei Warren Suicide e Joshua Eustis<br />
dei Telefon Tel Aviv, e le tiepide impressioni precedenti<br />
non vengono di fatto ribaltate: impostazione cantautoriale<br />
preponderante (Song Of Los), impronta netta del<br />
Thom Yorke solista (Escape, Ash/Black Veil) e zuccherosità<br />
dreamy che fan quasi chillwave (Black Water). Il<br />
formato lungo permette di inquadrare meglio il disegno<br />
complessivo e svela una certa attenzione per il mood e<br />
le suggestioni del suono minimale (c’è dell’anima dietro<br />
brani come Goodbye e Candid De La Calle), ma compone<br />
un quadro scarno e algido, senza finezze compositive<br />
degne di nota e sicuramente derivativo.<br />
Censurare la sincera volontà di adottare un nuovo volto<br />
sarebbe cattivo (e sospettare che si stia volutamente<br />
mirando al popolo dei postrockers è pura perfidia), ma<br />
se ti nascondi dietro le orme tracciate da altri è lecito<br />
sollevare obiezioni. Avevamo già assistito lo scorso anno<br />
ad un analogo abbandono delle certezze electro con<br />
Trentemøller e il suo Into the Great Wide Yonder
.<br />
Da quelle parti però c’erano ricchezza di contenuti e<br />
precise intenzioni espressive, qui povertà espressiva e<br />
qualche piacioneria di troppo. E il carattere mostrato<br />
negli ultimi quindici anni dov’è finito?<br />
(5.9/10)<br />
Carlo aFFatigato<br />
aQuadrop - Soul Ep (l2S rECordingS,<br />
agoSto 2011)<br />
Genere: italian post-Dubstep<br />
Di quell’immensa distesa di realtà sommerse che è la<br />
scena dubstep/wonky italiana, il milanese Aron Aquadrop<br />
Airaghi è tra quelli col sound più esterofilo ed originale.<br />
E infatti è anche tra quelli più apprezzati oltre il<br />
confine, avendo acquisito una certa autorevolezza coi<br />
primi eppì e soprattutto con l’album Aurora Borealis<br />
del 2010, col quale ha approcciato la materia dubstep<br />
spaccandola tra conservatorismo downtempo e intraprendenza<br />
wobble. Dopo aver catturato l’attenzione di<br />
producers come Untold, EL-B e Starkey, quest’anno<br />
il ragazzo sta dicendo la propria sulle nuove pieghe<br />
post-dubstep/future-garage in corso, e questo Soul EP<br />
arriva dopo un percorso di avvicinamento partito con<br />
il singolo iLICK YOU (che al caro SBTRKT piacerebbe un<br />
sacco) e proseguito con una Drops che sembra uscita<br />
dal recente catalogo Hotflush.<br />
Le spinte controverse del nuovo corso step mostrano sia<br />
la voglia di andare oltre che l’orgoglio di appartenenza<br />
ad una storia che ha radici lontane, per cui l’intelligente<br />
rispolvero 2-step garage di Soul è il giusto omaggio al<br />
passato da parte del nuovo che avanza. Le spinte più<br />
coraggiose invece le danno Evolution, mescolando un<br />
feeling soul vagamente Jamie Woon alla frizzante vivacità<br />
Mount Kimbie, e King Of The Jungle, con un tappeto<br />
tribal-funky a sostegno di coraggiose tesi wonky-beat<br />
a metà strada tra Jamie XX e Flying Lotus. Che in Italia<br />
bolla qualcosa in pentola lo sapevamo già e ve l’avevamo<br />
detto più volte, ma constatare una qualità che nulla<br />
ha da invidiare alle ultime derive londinesi fa comunque<br />
un certo effetto. Aspettando l’esplosione definitiva...<br />
(7.1/10)<br />
Carlo aFFatigato<br />
aStrid WilliamSon - pulSE (onE littlE<br />
indian, agoSto 2011)<br />
Genere: ambient pop<br />
Quinto disco e un cambio di rotta sostanziale per Astrid<br />
Williamson, signora del pianoforte e della canzone proveniente<br />
dalla terra d’Albione. Se l’ultimo disco, Here<br />
Come The Vikigns del 2009, era apparso un appannato<br />
tentativo di mettere i propri talenti al servizio di un pop/<br />
rock senz’anima, con Pulse decide di sfruttare la propria<br />
formazione di pianista e musicista classica per una<br />
ricerca sonora più originale e meno usa e getta. Le dieci<br />
composizioni giungono come il risultato di una stretta<br />
collaborazione con il produttore Leo Abrahams, noto<br />
per il suo lavoro con Brian Eno.<br />
Se il singolo Pour è una rivisitazione ambient dell’elettronica<br />
umana tardi Ninties venata di Europop, il resto<br />
del disco è in costante equilbrio tra pianismi minimali<br />
(Underwater), qualche ritorno alla chitarra pop-folk degli<br />
esordi (Connected), rock-pop radiofonico speziato di atmosfere<br />
aeree (la titletrack), esperimenti etno-camerisitici<br />
(Cherry), e ambient dolce venato della delicata voce<br />
della Williamson (Paperbacks, Husk). Una tavolozza di<br />
colori più ampia che cerca una quadratura tra Lisa Germano,<br />
l’ondata islandese tra Novanta e Duemila, il Brian<br />
Eno della musica per ambienti, e l’elettronica più easy.<br />
Nemmeno questo è un capolavoro, ma preferiamo il recupero<br />
di un pensiero musicale all’inconsistenza della<br />
rincorsa a un mercato radiofonico che sulla Williamson<br />
- forse a torto - ha già detto la propria.<br />
(6.6/10)<br />
marCo boSColo<br />
azari & iii - azari & iii (looSE lipS, agoSto<br />
2011)<br />
Genere: retro-house<br />
I canadesi Azari & III, ovvero Christian Farley / Dinamo<br />
Azari e Alphonse Lanza / Alixander III, hanno debuttato<br />
nel 2009 con Hungry For The Power, un cuore soul cir-<br />
condato dal classico tintinnare di vecchi house claps,<br />
una spremuta funky e sintetiche Inner City / italo disco.<br />
Il crooning extra black ci ricordava i dischi di Jimmy<br />
Edgar e qualcosa di Seth Troxler, i ritornelli si portavano<br />
dentro lo struggle della house diva. Fritz Helder e<br />
Starving Yet Full, i primi due di una lunga serie, erano<br />
i vocalist e il pezzo, uscito sulla francese I’m A Cliché,<br />
faceva il giro del mondo finendo nelle playlist di gente<br />
insospettabile come Grizzly Bear e Broken Social Scene.<br />
Lo stesso anno, “Azari and Third” ripete il botto con Reckless<br />
With Your Love, altra mossa felpata e dark, altro<br />
tuffo edonista negli eccessi della New York del Paradise<br />
Garage condito con la più basica tecnologia di Chicago<br />
e Detroit (bello anche il remix con la base hi-NRG / Snap<br />
di Tensnake), tutto tra metà e fine Ottanta con bpm morigerati,<br />
vedi alla voce Nicolas Jaar, specchi bagnati<br />
sulle pareti, r’n’b lascivo, visioni afrofuturiste (Indigo) e<br />
soltanto una piccola concessione agli eighties paraculi<br />
con il singolo, del 2010, Into The Night (di cui trovate<br />
anche un bel remix strumentale dello stesso Jaar).<br />
Ora che finalmente abbiamo l’album lungo per le mani<br />
scopriamo che la coppia era seria quando affermava a<br />
XLR8R di star lavorando alla propria new, futuristic shit.<br />
Si sono circondati di synth e hanno imbastito una vera<br />
e propria “orchestra analogica” in studio. Nel frattempo,<br />
sono diventati un quartetto che non rappresenta più<br />
(o non solo) una risposta a Hercules And Love Affair,<br />
Jessica 6 (Lost In Time e il nuovo singolo Manic) e compagnia<br />
boogie disco (Manhooker). L’album esplora varie<br />
Tunnel Vision, spazialità acid (Infiniti, Change Of Heart) e<br />
anche del vintage funk (Prince citato in Undecided) ma,<br />
a perderci, è un poco dell’originaria disinvoltura...<br />
(6.8/10)<br />
Edoardo bridda<br />
balam aCab - WandEr / WondEr (tri anglE,<br />
agoSto 2011)<br />
Genere: ambient-step<br />
Sembrava che andasse a parare nei lidi della witch<br />
house il giovane americano Alec Koone con il suo EP<br />
d’esordio (See Birds), ma visto che la bolla in poco più<br />
di un anno è bella che scoppiata, con questo full la sua<br />
direzione si affianca più che al noise drone delle streghe<br />
alle sonorità soul di James Blake e compagnia soulstep,<br />
aggiungendo atmosfere ambient che utilizzano i setting<br />
derivati dall’IDM e le vocals Novanta à la Lamb per<br />
costruire un quadretto di ambientronica meditativo e<br />
infinitamente retrò.<br />
Oh Why, che ha già fatto rizzare le antenne a più di un<br />
talent scout, riporta sul piatto un’atmosfera new age<br />
a bassa velocità con vocine in elio ed effettini ad 8 bit<br />
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