Ricerca Immigrati_impaginato(.Pdf 1.8 MB) - Avis
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arcaiche e tradizionali, ne sostengono la centralità in ogni possibile modello di convivenza<br />
sociale. In questa prospettiva anche la moderna società occidentale, pur<br />
rappresentando se stessa secondo i principi ideologici dell’utilitarismo (non fare<br />
nulla per nulla, ricercare costantemente il profitto), sarebbe largamente basata sulle<br />
pratiche di dono – vale a dire, secondo una celebre definizione di J. Godbout, su<br />
forme di circolazione di beni e servizi che presuppongono e anzi creano e riproducono<br />
costantemente legami personali. Senza la logica del dono e il principio di reciprocità<br />
che essa implica, profondamente incastonati nelle pratiche quotidiane e<br />
nella socialità primaria, non funzionerebbero neppure i meccanismi istituzionali su<br />
cui la società contemporanea si fonda, vale a dire il mercato e lo stato. La circolazione<br />
delle merci nel mercato e l’erogazione di servizi attraverso lo stato e la sua<br />
burocrazia si contrappongono frontalmente alla logica del dono: in essi, beni e servizi<br />
circolano – almeno idealmente – a prescindere dai legami personali, seguendo<br />
le astratte regole del valore da un lato, e dei diritti di cittadinanza dall’altro. Ad esempio,<br />
io compro una merce pagandola, senza bisogno di stabilire alcuna relazione<br />
personale con chi vende; e posso usufruire di servizi come la scuola, la sanità<br />
etc. in quanto cittadino astratto, non certo in virtù delle mie conoscenze. Si tratta<br />
di un modello di democrazia – che però non può mai funzionare al suo stato puro:<br />
nella realtà sociale, ha sempre bisogno di fondersi con la costruzione di relazioni<br />
personali, che presuppongono la logica del dono e della reciprocità. Di fatto, se<br />
analizziamo secondo questa pista le pratiche quotidiane – dal fare la spesa allo<br />
stabilire rapporti con i colleghi di lavoro, dalle interazioni con le istituzioni a quelle<br />
con amici e parenti e così via – le vediamo plasmate da criteri di scambio e reciprocità,<br />
da prestazioni gratuite, da solidarietà, da regali cerimoniali, insomma da<br />
un’amplissima serie di attività che rientrano nel concetto antropologico di dono.<br />
In questo quadro, che ruolo svolgono le attività di esplicita donazione come quella<br />
del sangue? Fino a che punto possiamo considerarla davvero una forma di dono<br />
nell’accezione antropologica del termine? Questa tesi era stata sostenuta con forza<br />
da Richard Titmuss, economista inglese autore – all’inizio degli anni ’70 –<br />
dell’unico studio di vasto respiro monografico tutt’oggi esistente sugli aspetti sociali<br />
della donazione del sangue. Tittmus vedeva in quest’ultima l’espressione più pura<br />
di un “altruismo primario” – una spinta alla solidarietà che rappresenterebbe la<br />
principale forza di coesione della compagine sociale e senza la quale il welfare state<br />
non sarebbe possibile. L’opera di Titmuss, per molti versi ancora attuale, è principalmente<br />
dedicata al raffronto tra i sistemi di donazione basati sul volontariato,<br />
come quello della Gran Bretagna e della maggior parte dei paesi europei, e sistemi,<br />
come quello statunitense, basati invece sul mercato del sangue. Il modello volontaristico<br />
è non solo eticamente più giusto, a suo parere, ma anche più sicuro sul<br />
piano medico e più efficiente sul piano strettamente economico. Il modello di mercato<br />
è destinato all’insuccesso perché introduce una logica estranea alla natura<br />
stessa della pratica. Perché il dono del sangue sia benefico e sicuro occorre<br />
l’onestà e la disponibilità disinteressata e sistematica del donatore: in altre parole,<br />
un elemento di basilare fiducia e impegno civico che viene compromesso (almeno<br />
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