Ricerca Immigrati_impaginato(.Pdf 1.8 MB) - Avis
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icevente e strutture sanitarie di mediazione. C’è anche da considerare che la particolare<br />
concentrazione di sieropositivi nelle aree più povere del mondo, come<br />
l’Africa, tende a produrre una maggiore percezione di rischio e impurità per i gruppi<br />
migranti provenienti da quelle aree – come se l’AIDS, nelle rappresentazioni popolari,<br />
rappresentasse una conferma “oggettiva” delle fantasie segregazioniste.<br />
Anche altri cambiamenti recenti nelle modalità della donazione influiscono sulle<br />
sue attuali implicazioni etiche. In particolare, il passaggio da forme dirette di donazione,<br />
esemplificate dal modello del “braccio a braccio”, a forme assai più mediate,<br />
nelle quali non solo il ricevente non è più percepito come persona concreta, ma<br />
addirittura il sangue viene filtrato nelle sue componenti e utilizzato per la produzione<br />
di plasma o di prodotti farmaceutici. Il “dono” viene così piegato a modalità che<br />
rischiano di allontanarlo dalla sua vocazione di “creatore di legami”: viene per così<br />
dire “diluito” e inserito in meccanismi di produzione industriale che possono far temere<br />
rispetto al suo effettivo utilizzo in chiave solidaristica. Tutto ciò si lega a una<br />
più forte organizzazione e pianificazione delle donazioni che, mentre le razionalizza<br />
cercando di evitare sia carenze che sprechi, le allontana però dall’occasione,<br />
dal concreto bisogno. Solo la piena fiducia nell’istituzione mediatrice – l’<strong>Avis</strong> stessa<br />
– funziona per i donatori da garanzia etica.<br />
Questa considerazione conferma l’importanza e l’insostituibilità dei gruppi associativi<br />
volontari, che non si limitano (come talvolta si pensa) a surrogare o supplire una<br />
funzione dello Stato: piuttosto, arrivano là dove lo Stato (o il Servizio Sanitario Nazionale)<br />
non potrebbe per motivi strutturali arrivare. Non solo per la capillarità della<br />
loro presenza sul territorio (un punto su cui tornerò in conclusione di questa relazione),<br />
ma proprio per la capacità di svolgere una funzione di mediazione etica e<br />
valoriale. Solo tra i pari, rappresentati dall’associazione, può passare la solidarietà<br />
incondizionata e la fiducia altrettanto incondizionata nel “buon uso” del dono.<br />
L’istituzione statale, proprio per la sua autorevolezza e per la sua caratterizzazione<br />
in una logica di diritti-doveri, è troppo “esterna” e troppo “potente” per svolgere<br />
questa funzione. Il principio democratico per cui “lo Stato siamo noi” non è rilevante<br />
nella percezione comune delle pratiche sociali. Lo Stato è comunemente vissuto<br />
come una sorta di controparte, che ci chiede e alla quale noi chiediamo in una logica<br />
diversa da quella del dono. Per di più, su di esso (in quanto contrapposto a<br />
quella che un po’ vagamente possiamo chiamare la società civile) si proiettano<br />
comunemente immagini di inefficienza, abusi di potere, infiltrazioni di interessi privati<br />
in quella che dovrebbe essere una pura sfera pubblica. Non mi riferisco qui<br />
soltanto all’immagine opprimente e decisamente nemica dello Stato totalitario che<br />
emerge con grande forza dalle nostre interviste agli immigrati romeni. Anche dello<br />
Stato democratico, anche di un sistema di welfare relativamente funzionale e “amico”,<br />
non ci si fida mai completamente (è una diffidenza per così dire strutturale,<br />
non contingente: solo in una utopica democrazia perfetta non ci sarebbe differenza<br />
tra lo Stato e la comunità dei pari).<br />
Questo è esattamente il punto che sembra sfuggire a Tittmus, che classifica come<br />
indifferentemente pubblica ogni forma di raccolta del sangue, sia direttamente or-<br />
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