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tuazione difficile e di carenza nell’approvvigionamento e nello stoccaggio di scorte.
La contraddizione ha a che fare proprio con il tipo di motivazioni che vengono portate.
La disponibilità incondizionata di fronte a una situazione concreta di bisogno o
all’appello di un marabout è cosa ben diversa dell’adesione a un sistema organizzativo
basato sulla sistematicità, su donazioni periodiche regolari non legate a occasioni
particolari – vale a dire, il modello perseguito da Avis e da analoghe associazioni
nei paesi europei.
La maggioranza dei senegalesi intervistati si considerano dunque donatori per il
fatto di aver donato sangue anche una sola volta, in modo occasionale e talvolta
quasi casuale (ad esempio per essersi trovati all’ospedale e aver risposto immediatamente
alla richiesta di donazione di uno specifico gruppo sanguigno). Tutto
ciò è coerente con una istituzione culturale tradizionale, la teranga, un insieme di
norme che impongono uno spirito di aiuto e solidarietà orizzontale verso chiunque
si trovi in situazione di bisogno. La teranga propone una forma di dono assai affine
a quella del sangue, cioè un “dono agli estranei” (in contrapposizione al dono classico
di tipo maussiano): infatti, si basa sull’anonimato (il donatore tendenzialmente
non si palesa, resta nell’ombra o perlomeno non fa rimarcare il proprio ruolo) e
sull’assenza di forme dirette di contraccambio (chi riceve potrà in futuro donare a
sua volta, non necessariamente restituire a chi ha originariamente donato). Una
delle sue forme più tipiche è il dono notturno, in cui si lasciano di nascosto beni fuori
della porta del bisognoso di turno – un modo per sottrarre questa forma d’aiuto ai
vincoli della reciprocità o alle implicazioni di un rapporto di dipendenza (altre forme
di dono, verticali rispetto alle appartenenze sociali, implicano invece forme di dipendenza
e patronage). Perlomeno, questa è l’ideologia che accompagna la teranga,
la sua forma ideale. Si può supporre che nella realtà l’anonimato non sia
tale fino in fondo: ma qui interessa identificare un radicato modello culturale, nei cui
termini il fenomeno della donazione del sangue tende ad essere interpretato.
In definitiva, nella comunità senegalese si manifesta un’ampia disponibilità alla donazione
“a chiamata”, motivata dall’impellenza di richieste specifiche o dall’appello
di autorità civili o religiose. Una disponibilità che non si rivolge solo all’interno della
comunità ma che, come per la teranga, ha valore universalistico. Decisamente
meno forte sembra la disponibilità a una donazione sistematica, fidelizzata e non
legata ad occorrenze specifiche. E’ un punto di cui occorre tener conto nella costruzione
di campagne di sensibilizzazione. Come già notato, l’efficacia di strategie
comunicative mass-mediali, che si rivolgono agli individui più che alla comunità e
nelle quali l’appello alla solidarietà resta astratto e generico, sembra assai limitata –
o comunque da sola non sufficiente. Interessanti sono invece le esperienze di
“giornate della donazione”, in cui comunità migranti sono coinvolte con un alto livello
di visibilità e di coinvolgimento istituzionale, e in cui la solidarietà si fa “concreta”,
si accompagna alla valorizzazione della cultura d’origine e diviene fattore di integrazione.
Per quanto una esperienza del genere organizzata circa un anno fa a
Pontedera abbia avuto un successo solo parziale, si tratta di una strada da approfondire
e riprendere. Il modello è ad esempio diffuso e affermato con successo nel
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