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Ricerca Immigrati_impaginato(.Pdf 1.8 MB) - Avis

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L’alta incidenza dei markers di malattie infettive potrebbe avere un<br />

legame con l’effetto perverso dato dalla forte pressione della comunità<br />

nelle raccolte effettuate in un solo giorno. L’esperienza ci insegna<br />

che i raduni fatti appositamente per reclutare nuovi donatori in una<br />

popolazione specifica, potrebbe aumentare l’incidenza complessiva<br />

dei markers di malattie infettive. Una possibile spiegazione potrebbe<br />

essere data dal fatto che i donatori di sangue, sottoposti ad<br />

un’eccessiva pressione sociale, potrebbero rispondere in modo non<br />

veritiero ai questionari pre-donazione, per la paura di essere rifiutati<br />

di fronte ai membri del proprio gruppo [op.cit., p.407].<br />

Anche Reddy [2007] compie una ricerca di questo tipo. Il suo lavoro riguarda la<br />

comunità indù di Houston, Texas. Analizza le procedure dedicate alla raccolta di<br />

sangue utile per studiare le variazioni genetiche fra le popolazioni. Affronta così il<br />

rapporto che si crea fra ricercatori e comunità indù, che deve mettere continuamente<br />

in discussione le proprie credenze sul sangue e le proprie concezioni del<br />

dono. I risultati di studi come questi dimostrano l’utilità, all’interno delle strutture sanitarie<br />

pubbliche o private, di sezioni dedicate all’approccio alle diversità. Ancora<br />

una volta, laddove ce ne fosse bisogno, si sottolinea il ruolo primario delle strutture<br />

22 stesse, mai disarticolate dal contesto geografico, bensì capaci di comprendere<br />

la molteplicità dei bisogni e delle procedure culturalmente acquisite che si trovano<br />

sul territorio, e che in tempi di forte immigrazione necessitano sempre più di personale<br />

capace di tradurre quei bisogni e quelle differenti credenze sul sangue, al fine<br />

di rendere ottimale la pratica del reclutamento. Proviamo inoltre a considerare la<br />

questione con gli occhi dell’immigrato: la sua auto-percezione di soggetto attualmente<br />

estraneo, si trova, nelle situazioni testé affrontate, culturalmente rafforzata<br />

dalle procedure fisiologiche. Il compito della mediazione culturale si fa dunque più<br />

22 Si consideri il caso estremo esaminato da Olaiya [2003] in Nigeria: ogni ospedale nazionale<br />

organizza il sistema trasfusionale secondo i propri metodi. Pertanto non deve sorprendere che<br />

le motivazioni che si adducono alle donazioni siano assai prosaiche: presso il Lagos State<br />

University Teaching Hospital (Lasuth), Ikeja, il 93% delle persone dona per il servizio che gli<br />

rende l’ospedale. Fra tutto il sangue raccolto, il 67% proviene da una precisa scelta politica<br />

dell’ospedale stesso, che prevede che per ogni bambino che sta per nascere il padre versi<br />

almeno una pinta di sangue, mentre il 26% proviene dal rimpiazzo fatto dai parenti di persone<br />

trasfuse. Queste pratiche, accompagnate dalla diffusa paura di contrarre malattie anche durante<br />

la trasfusione, non sono molto utili per un adeguato rifornimento di scorte di sangue. La<br />

ricerca punta verso un incremento delle donazioni volontarie: si evidenzia come le strutture<br />

sanitarie siano in questo caso colpevoli di non fornire né adeguato strumento informativo, né<br />

le giuste incentivazioni, non necessariamente economiche, che potrebbero aiutare la Nigeria<br />

ad uscire da una grave crisi. Il sud-est asiatico ha da tempo fatte sue queste esigenze. In<br />

AA.VV. [2000] sono rappresentate le strategie proposte a Dhaka, Bangladesh, nel settembre<br />

2000. Anche in questo caso, comunque, si deplora la mancanza di uniformità dei risultati, dovuta,<br />

secondo gli organizzatori, a mancanza di linee guida nazionali e di strutture tecnologiche<br />

adeguate.<br />

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