LE SESSANTA PREDICHE DI DON ISIDORO - Don Isidoro Meschi
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IIIª DOMENICA <strong>DI</strong> QUARESIMA<br />
Per rispondere all’alleanza lanciata da Dio, non bastano le forze umane; ci occorre<br />
il dono della fede<br />
Es 34,4-10 Domenica di Abramo<br />
Gal 3,6-14 18 marzo 1990<br />
Gv 8,31-59 chiesa di san Giuseppe<br />
Quando ero ragazzo, la terza domenica di Quaresima mi trovavo molto agitato, perché non<br />
capivo pressoché nulla della liturgia della parola. Adesso, con l’aiuto dello Spirito Santo, cerchiamo<br />
di comprendere qualcosa, per poter proseguire nella celebrazione della santa Messa. Cercheremo<br />
poi di pensarci tutta la settimana.<br />
Che cosa ci dice la prima lettura? Dice che lì alleanza che Dio stabilisce con gli uomini,<br />
prevede la liberazione da qualsiasi ribellione dell’uomo. In un linguaggio umano, il libro dell’Esodo<br />
afferma che chi pecca, può incorrere nelle conseguenze terribili del peccato, ma in seguito ribadisce<br />
che il Signore è eterno nel suo amore e porta nella storia un’alleanza eterna. La seconda lettura ci<br />
aiuta a rispondere all’obiezione di sempre: se Dio è fedele ma noi siamo deboli, se cadiamo nei<br />
peccati e siamo pieni di contraddizioni, come possiamo rispondere alla legge della sua alleanza? Il<br />
libro del Deuteronomio parla chiaro: chi non osserva la legge, finisce col cadere nella<br />
contraddizione della maledizione (Dt 27,26 in Gal 3,10).<br />
La seconda lettura ci rivela che, per rispondere all’alleanza che Dio stabilisce con noi, non<br />
dobbiamo far conto della nostra forza, bensì del dono della fede. Come Abramo ha conosciuto la<br />
salvezza perché ha creduto in Dio, così ciascuno di noi può conoscere la salvezza mediante il sì del<br />
suo cuore, mediante l’intuizione profonda di aprirsi alla fede. È sempre possibile per noi aprirci alla<br />
fede, perché Gesù è redentore fino al punto di farsi colui che, conoscendoci accoglie per noi tutte le<br />
maledizioni del peccato. Di fronte alla rivelazione del suo amore noi dobbiamo riscoprirci chiamati<br />
a vivere in virtù della fede e diventare così santi, giusti. Che cosa succede, se accettiamo la fede?<br />
Se continuiamo a guardare a quella presenza, a quell’amore? A credere in Lui? Succede che,<br />
nonostante le nostre debolezze, noi possiamo conoscere la verità, possiamo ogni giorno condurre la<br />
vita, non da soli, ma con Gesù; possiamo credere in Dio, non mediante qualche tentativo del nostro<br />
pensiero e nulla più, ma mediante il rapporto diretto con il Figlio suo, che rende Dio nostro fratello,<br />
anzi compagno di viaggio. Vivendo così diventiamo liberi, non perché diventiamo inattaccabili<br />
dalla tentazione e dal peccato, ma perché possiamo, non tramite ragionamenti difficili ma per<br />
l’esperienza quotidiana, scoprire che Dio è più grande della nostra debolezza, che noi possiamo<br />
passare ogni giorno dalla schiavitù del peccato, il quale fa parte di noi ed è contrario alla nostra<br />
coscienza, alla gioia bellissima di esprimere nella nostra piccola vita la grandezza sconfinata del<br />
disegno di Dio: Dio, che è eterno e perfetto nel suo amore, ci porta a conoscere sempre meglio la<br />
sua verità, a recuperare sempre meglio la sua libertà. La situazione per noi deve essere quella di un<br />
alleluia incontenibile di gioia.<br />
Che cosa, però, potrebbe rimanere anche per noi? Quello che rimase peri Giudei, ai quali<br />
Gesù si rivolgeva nella bellissima festa ebraica delle Capanne, ricorrente nella stagione<br />
dell’autunno. Che cosa succedeva a quei Giudei? Che cosa potrebbe succedere a noi? Che, invece di<br />
aprirci totalmente a Gesù, vogliamo stare davanti a Lui conservando il frutto della nostra esperienza,<br />
misurando Gesù sulla nostra mentalità, senza andare oltre, per crescere realmente. I Giudei che<br />
hanno conosciuto Gesù, non erano atei, erano credenti, erano, tutto sommato, galantuomini. Però,<br />
invece di assumere le basi positive della loro vita e della loro storia come punto per innalzarsi verso<br />
la chiamata di Dio, assumono tali basi come motivo di orgoglio, di chiusura, di presunzione; invece<br />
di riferirsi alla tradizione di Abramo per giungere al Dio che chiama Abramo, che chiama tutti gli<br />
uomini al regno dell’amore, fanno di quella tradizione un motivo di rifiuto e di presunzione.<br />
Qual è il grande rischio? Quello di pensare che noi conosciamo già tutto, quello di pensare