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adattarsi Moquette e carta da parati, pia - Segnalo.it

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etica<br />

«… La condotta di un individuo può essere giudicata morale a secon<strong>da</strong> della conform<strong>it</strong>à o meno<br />

alle regole o ai valori vigenti e proposti. Eppure non basta. L’individuo diviene <strong>da</strong>vvero soggetto<br />

morale se si rende responsabile della sua condotta, sia essa conforme alle regole e alle ab<strong>it</strong>udini<br />

o difforme <strong>da</strong> esse. Nessun individuo può divenire <strong>da</strong> solo soggetto morale, ma non vi è morale<br />

se non vi è assunzione di responsabil<strong>it</strong>à. Allo stesso modo non vi è né vi potrebbe mai essere<br />

credenza se l’individuo non divenisse interprete - più o meno originale - dell’universo simbolico a<br />

cui appartiene ed entro cui opera.<br />

Ha ragione Foucault: “Se è vero che ogni azione morale implica un rapporto con il reale in cui si<br />

compie e un rapporto con il codice cui si riferisce, è vero altresì che essa implica un rapporto con<br />

se stessi, e questo rapporto non è semplicemente ‘coscienza di sé’, bensì cost<strong>it</strong>uzione di sé<br />

come soggetto morale”.<br />

Bisogna dunque cost<strong>it</strong>uirsi come “soggetti morali”. Questo è più che mai urgente nel mondo<br />

contemporaneo. La complessificazione della società ha disarticolato i vecchi riferimenti: in essa si<br />

vengono sempre di più differenziando le prestazioni e i codici di condotta. Viviamo in una<br />

crescente asimmetria sociale che non è <strong>da</strong> concepire solo in termini di dispersione, ma anche di<br />

arricchimento. La dinamica della compless<strong>it</strong>à ha dilatato gli spazi di libertà, ha implementato le<br />

nostre possibil<strong>it</strong>à di scegliere e soprattutto di sceglierci, di modellare noi stessi con più am<strong>pia</strong><br />

discrezione di un tempo. Ma per trarre giovamento <strong>da</strong>i mutamenti del presente bisogna esserne<br />

all’altezza. Gli uomini vivono sempre sotto il segno dell’ambigu<strong>it</strong>à e la condizione contemporanea,<br />

al pari delle altre nella storia, non ne è priva. Ma vi sono difficoltà che sono specificamente<br />

nostre. Siamo esposti a rischi fino a ora mai sperimentati. Ne segnalo due: innanz<strong>it</strong>utto, corriamo<br />

spesso il pericolo d’essere travolti <strong>da</strong> quella stessa mobil<strong>it</strong>à <strong>da</strong> cui dovremmo trarre vantaggi; in<br />

secondo luogo, per ev<strong>it</strong>are la perd<strong>it</strong>a d’ident<strong>it</strong>à indotta <strong>da</strong>lla celer<strong>it</strong>à stessa delle mutazioni,<br />

ripariamo difensivamente nella serie. Abbiamo paura e perciò, lungi <strong>da</strong>l valorizzare le occasioni di<br />

libertà, accettiamo il regime: diveniamo passivi ed eterodiretti. Obbedienti involontari, senza<br />

neppure i vantaggi di questa celebre, antica virtù.<br />

Per trovare stabil<strong>it</strong>à in questa deriva dobbiamo cost<strong>it</strong>uirci più che mai come soggetti morali. A tale<br />

scopo è necessario ripiegare su di sé: bisogna raccogliere e governare la propria potenza.<br />

Divenire “soggetto morale” vuoi dire cost<strong>it</strong>uirsi come punto di resistenza a fronte della mobil<strong>it</strong>à e<br />

delle perturbazioni dell’ambiente; ergersi a momento stabile di selezione/decisione. Se occorre,<br />

farsi luogo di neutralizzazione e di indifferenza: di assenza. Per far questo ci vuole abil<strong>it</strong>à. In<br />

effetti questo è il significato originario della parola arete: virtù. Virtuoso è in primo luogo colui che<br />

è dotato di agil<strong>it</strong>à, che sa trarsi fuori <strong>da</strong>lle difficoltà. Divenire legge a se stessi significa volgere la<br />

propria po­tenza in forma, il proprio desiderio in carattere. Questa e non altra era la ragione per<br />

cui gli antichi dicevano che ciò che è buono è bello e ciò che è bello è buono.<br />

Ma il governo di sé non è operazione solipsistica. L’idea di virtù è sin <strong>da</strong>ll’inizio legata al rapporto<br />

con gli altri, al riconoscimento. Questo meglio lo si comprende se si considera il significato del<br />

verbo greco cresco. Il termine deriva <strong>da</strong>lla medesima radice ar - <strong>da</strong> cui, appunto, arete - e vuoi<br />

dire <strong>pia</strong>ccio, com<strong>pia</strong>ccio, riesco grad<strong>it</strong>o; significa perfino faccio ammen<strong>da</strong>. Virtuoso dunque è<br />

colui che se la sa cavare, ma è anche colui che sa com<strong>pia</strong>cere, che sa chiedere scusa. Chi è<br />

legge a se stesso non invade lo spazio degli altri. In effetti, gli individui riescono a essere tanto<br />

più se stessi, quanto più si pongono in relazione agli altri: altri uomini, ma anche culture altre,<br />

tradizioni etiche diverse. È nell’incontro/scontro con le differenze che si gua<strong>da</strong>gna l’ident<strong>it</strong>à. Non<br />

vi può essere consapevolezza di sé al di fuori dell’esperienza della differenza. …»<br />

(SALVATORE NATOLI, Dizionario dei vizi e delle virtù, FELTRINELLI 1996, pp.8-9)<br />

in SALVATORE NATOLI,

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