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Bollettino n. 184 - Società Filosofica Italiana

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ivolge, in contro-tendenza (o contro-intenzionalità) alla mia stessa intenzionalità teoretica;<br />

facendomi così scoprire non più anzitutto come soggetto teoreticamente intenzionante<br />

quanto, più radicalmente, come soggetto di responsabilità etica.<br />

Le conseguenze di tale rivolgimento mi si prospettarono ben presto come molto<br />

rilevanti; non solo a proposito del soggetto trascendentale husserliano, ma anche, correlativamente,<br />

a proposito di quell’orizzonte ontologico che la tradizione filosofica occidentale<br />

più accreditata, Heidegger compreso, considerava indissolubile correlato del pensiero;<br />

e che Bontadini m’aveva insegnato a considerare come intrascendibile. Senza considerare<br />

le conseguenze per la stessa riflessione teologica, dato che l’ontologia, sulla scia di<br />

Heidegger ed in compagnia con Karl Rahner ed Italo Mancini, era stata anche da me considerata<br />

fino allora come l’indispensabile precomprensione ultima del discorso teologico.<br />

Lo studio approfondito ed appassionante di Levinas, cui dedicai vari corsi accademici<br />

(confluiti poi nella monografia La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza,<br />

Rosenberg & Sellier, Torino 1996) e vari saggi (confluiti nel volume Il Bene al-di-là<br />

dell’essere. Temi e problemi levinassiani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2003), mi<br />

convinse a poco a poco che l’orizzonte ultimo del senso, e quindi anche lo sfondo ultimo<br />

– se non proprio la precomprensione ultima – del discorso teologico non è l’orizzonte<br />

ontologico, ma l’orizzonte etico; se pur si può ancora chiamare orizzonte, essendo piuttosto<br />

la provocazione o vocazione originaria che costituisce pre-originariamente l’humanum<br />

provenendogli dall’“altro”. Senza dimenticare che il lavoro filosofico di Levinas, impegnato<br />

a “tradurre” in greco, cioè nel linguaggio della filosofia e con metodo fenomenologico<br />

rinnovato, il messaggio dei profeti ebraici e, più in generale, lo spirito della tradizione<br />

religiosa ebraico-talmudica, mi confermava circa quella possibilità di incrocio ermeneutico<br />

della tradizione religiosa ebraico-cristiana e della tradizione filosofica occidentale,<br />

che andavo maturando sul piano epistemologico.<br />

Rimanevo però convinto che, neppure accogliendo la provocazione levinassiana,<br />

l’ontologia, come pure l’orizzonte trascendentale della coscienza, potessero essere messe<br />

fuori circuito dalla riflessione filosofica. Per questo ripresi il confronto con Husserl (cfr. il<br />

volume Soggettività e intersoggettività. Le Meditazioni cartesiane di Husserl, Rosenberg<br />

& Sellier, Torino 1997) e, soprattutto, mi rivolsi a Kant, cercando d’interrogarlo sul rapporto<br />

tra ontologia e teologia sullo sfondo delle contrapposte posizioni di Heidegger e di<br />

Levinas sul tema (cfr. il volume Ontologia e teologia in Kant, Rosenberg & Sellier,<br />

Torino 1997, tr. fr. Du Cerf, Paris 2001, il cui primo capitolo ha come titolo “Rileggere<br />

Kant dopo Heidegger e Levinas”).<br />

Ciò che soprattutto evidenziai in Kant è la presenza di due forme di ontologia, una di<br />

tipo fenomenico-oggettuale, in nessun modo atta a fornire da sfondo alla teologia, ed una di<br />

tipo noumenico-transoggettuale, che non solo apre lo spazio alla teologia ma le offre un’indispensabile<br />

sponda critica. Se è vero, infatti, che Kant mette in crisi l’ontoteologia (ovvero la<br />

metafisica anche nella sua versione ontologico-trascendentale), ritenendo che essa non sia in<br />

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