Bollettino n. 184 - Società Filosofica Italiana
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Aristotele stabilisce un’indubbia corrispondenza tra l’eudaimonia del singolo cittadino e quella<br />
dell’intera polis: quindi, l’esame dei vari generi di vita è finalizzato a definire tanto la felicità<br />
individuale, quanto quella propriamente “politica”. Nella prospettiva aristotelica, la valorizzazione<br />
della vita secondo virtù non implica la totale svalutazione degli altri agatha, ossia dei beni<br />
corporei e di quelli esterni: infatti, per conseguire la felicità nel senso aristotelico, sono necessari<br />
tutti e tre i tipi di beni, seppure in proporzioni diverse e soprattutto all’insegna della giusta misura.<br />
Per Aristotele, infatti, agire secondo virtù comporta inderogabilmente l’utilizzo degli altri<br />
beni, indispensabili appunto come strumenti di azione. Dunque la vita virtuosa, propria del buon<br />
cittadino, si definisce come inseparabile dalla prassi politica: ogni azione, in effetti, presuppone<br />
un aspetto relazionale e quindi uno spazio sociale in cui realizzarsi. La molteplicità di generi di<br />
vita menzionati nel secondo capitolo (VII, 1324 a 5 e ss.) lascia spazio a una polarità fondamentale:<br />
il bios politikos kai praktikos da una parte e il bios theoretikos dall’altra. Aristotele riconosce<br />
come necessaria una revisione dei contenuti e delle finalità dell’attività politica, proprio a<br />
causa della confusione tra potere politico e dispotismo tirannico, generata prima dall’imperialismo<br />
dell’Atene periclea e poi dalla politica della Lega marittima. È con questo obiettivo che<br />
l’attività del politico viene “elevata” da attività tirannica, al theorein, cioè all’individuazione teorica<br />
delle norme e delle leggi cui conformare l’assetto della comunità politica, nonché la vita di<br />
tutti i suoi membri. Sebbene, nel pensiero di Aristotele, sia possibile riscontrare una sensibile<br />
oscillazione per quanto concerne la preferenza tra questi due generi di vita, la Gastaldi riconosce<br />
come evidente il tentativo aristotelico di conciliare vita attiva e vita contemplativa, con ogni probabilità<br />
ritenute non necessariamente alternative una all’altra. Il risultato di questo tentativo porta<br />
Aristotele a considerare la theoria come la forma più nobile di azione, da “praticare” appunto<br />
nella città buona. Quindi l’attività del politico entra a far parte, a pieno titolo, dell’attività teoretica<br />
in senso stretto. A questo punto si presenta ad Aristotele il problema di sostenere questa nuova<br />
concezione della theoria come forma elevata di praxis, in modo autorevole e non suscettibile di<br />
obiezioni: in quest’ottica si spiega il ricorso aristotelico alla divinità (Politica, VII, 1325 b 28 e<br />
sgg.), che tutti chiamano felice, in quanto appunto compie una praxis, ossia un’attività, assolutamente<br />
autoteles in se stessa, che si identifica proprio con il theorein.<br />
Dopo aver esaminato la trattazione di questo tema nella Politica, la Gastaldi prende in<br />
considerazione le due Etiche. Nell’Etica Eudemia l’attività conoscitiva e la prassi sembrano davvero<br />
due ambiti distinti, uno subordinato al nous e uno alla phronesis. Tutto ciò che riguarda la<br />
prassi risulta governato dalla phronesis, volta naturalmente al conseguimento delle virtù etiche;<br />
mentre, oggetto del nous, la cui attività coincide appunto con il theorein, non è altro che la divinità,<br />
dunque un’istanza metafisica. Secondo la Gastaldi, tuttavia, anche nell’Etica Eudemia è<br />
possibile riconoscere una tendenza conciliatrice: la prassi sarebbe in questo senso subordinata<br />
gerarchicamente a una funzione superiore dell’anima, cioè alla theoria, che viene a identificarsi<br />
proprio con il coronamento e il superamento del bios etico, cui il saggio deve necessariamente<br />
aspirare. Nell’Etica Nicomachea la felicità coincide con l’attività, costante e duratura, secondo<br />
virtù, non del tutto indipendente dalla sorte e dall’ineluttabile fragilità dei rapporti umani (E.N. I,<br />
10, 1099 b 10 e ss.). Nella rassegna dei generi di vita, Aristotele dice, a proposito della vita teoretica,<br />
che ne parlerà successivamente (E.N. I, 3, 1096 a 4-5): appare chiara fin da queste righe iniziali,<br />
la radicale diversità che distingue il bios theoretikos dagli altri generi di vita. Aristotele<br />
torna sul rapporto tra i generi di vita nel libro X, in cui viene sottolineata la preminenza dell’attività<br />
intellettuale su qualsiasi altra forma di azione, in quanto perfetta, amata in se stessa, stabile,<br />
autosufficiente, continua nel tempo e sommamente piacevole. Aristotele arriva perfino a definire<br />
questo genere di vita superiore alla condizione umana (E.N. X, 7, 1177 b 26-27) e il nous come<br />
qualcosa di “divino” (E.N. X, 7, 1177 b 30). Naturalmente il filosofo impegnato nell’esercizio del<br />
nous, non si preoccupa affatto dei beni esterni né dei beni del corpo; d’altro canto invece, il poli-<br />
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