Bollettino n. 184 - Società Filosofica Italiana
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aderenti ad una disciplina: il paradigma condiviso, per dirla con Kuhn, che stabilisce i problemi<br />
di cui ci si deve occupare e le soluzioni esemplari. Proprio questi due ultimi saggi sottolineano la<br />
svolta in senso antifondazionalista dell’epistemologia, nei confronti sia della scienza sia della<br />
politica, nei modelli di costruzione delle società libere. Essi in questo modo affrontano problemi<br />
ancora aperti: da un lato il rischio che le epistemologie naturalizzate si traducano in una «regressione<br />
epistemologica», con l’assumere dogmaticamente le procedure e i risultati di una disciplina<br />
specifica, sia essa la biologia o la scienza cognitiva, e col demandare ad essa la discussione dei<br />
problemi tradizionali sulla conoscenza; dall’altro la minaccia di problematici relativismi culturali,<br />
propri della posizione di Feyerabend, o il rischio dell’etnocentrismo rortyano. Come fa rilevare<br />
l’autore, queste conclusioni vengono tratte da un’interpretazione in senso relativistico della filosofia<br />
del “secondo” Wittgenstein, con la sua insistenza sulla pluralità dei giochi linguistici e delle<br />
forme di vita. Ci sia permesso di suggerire in conclusione che proprio una diversa interpretazione<br />
del “secondo” Wittgenstein può suggerire la via d’uscita dall’impasse che, come l’autore segnala,<br />
percorre la riflessione recente. Riprendendo uno spunto di Putnam (Rinnovare la filosofia,<br />
Milano 1998), si può infatti scorgere nell’ultimo Wittgenstein non tanto un’inclinazione relativistica<br />
e scettica quanto un monito nei confronti di qualunque pretesa fondazionalistica. Il relativismo,<br />
secondo questa interpretazione del filosofo viennese (ma si veda quanto già lucidamente<br />
sostenuto in Italia da Giulio Preti nel suo Lo scetticismo e il problema della conoscenza, riedito<br />
come Scetticismo e conoscenza, Catania 1993, a cura sempre di F. Coniglione), non sarebbe altro<br />
che una reazione uguale e contraria all’impossibilità di una garanzia metafisica della nostra conoscenza,<br />
che del fondazionalismo condivide lo stesso presupposto fallace: la pretesa che le nostre<br />
pratiche cognitive richiedano una giustificazione trascendentale.<br />
Michelangelo Caponetto<br />
H.-G. Gadamer, Scritti su Parmenide, a cura di C. Saviani, Filema, Napoli 2002, pp. 106.<br />
Questo piccolo volume vuole celebrare la lunga e fruttuosa collaborazione tra Gadamer e<br />
l’Istituto Italiano per gli studi Filosofici di Napoli raccogliendo e traducendo per la prima volta in<br />
italiano gli scritti che il filosofo tedesco ha dedicato al pensiero di Parmenide. Si tratta della<br />
recensione al Parmenides (1934) di Kurt Riezler, apparsa sul secondo fascicolo di «Gnomon» nel<br />
1936, della Postfazione alla seconda edizione dello stesso uscita nel 1970, di una Ritrattazione<br />
sul Poema di Parmenide del 1952, e soprattutto del famoso contributo Parmenides oder das<br />
Diesseits des Seins, apparso nel 1988 sulla rivista «La Parola del Passato», che dedicava interamente<br />
a Parmenide il fascicolo XLIII, raccogliendovi alcuni contributi di illustri antichisti, con il<br />
fine di fare il punto degli studi in vista di un convegno dedicato al filosofo magno greco. Diciamo<br />
subito che il lavoro più interessante e significativo è l’ultimo, ma anche gli altri tre sono apprezzabili,<br />
perché rivelano la grande competenza anche filologica di Gadamer, ma soprattutto si leggono<br />
con piacere per la profondità teoretica, il rigore argomentativi e la pacatezza dei toni espositivi:<br />
la recensione al volume di Riezler è praticamente una stroncatura, in quanto l’autore viene<br />
accusato di non conoscere adeguatamente la lingua, di ricostruire un Parmenide con gli occhi di<br />
Platone, di vedere una sorta di decadenza teoretica nei due allievi dell’Eleate, Zenone e Melisso,<br />
e di essere pesantemente condizionato nella propria interpretazione dal problema dell’Essere così<br />
come esposto da Heidegger in Sein und Zeit. Nonostante questo i toni non sono mai aspri o vessatori,<br />
ma sempre pacati e pieni di profondo rispetto per il lavoro di un collega, tanto che lo stesso<br />
Gadamer viene invitato a scrivere una Postfazione alla seconda edizione, nella quale i toni<br />
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