Dopo l'Estetica - Università di Palermo
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(ontologia). A ben vedere, l’argomento ontologico – che dal concetto<br />
<strong>di</strong> qualcosa conclude all’esistenza <strong>di</strong> qualcosa – è un esempio insigne <strong>di</strong><br />
confusione tra ontologia ed epistemologia, e, a voler essere più precisi,<br />
lo si dovrebbe forse chiamare “argomento epistemologico”.<br />
Dall’altra, e questa volta con una perplessità nei confronti dei continentali,<br />
la <strong>di</strong>stinzione tra ontologia ed epistemologia mi permetteva<br />
<strong>di</strong> esporre in modo chiaro l’equivoco che si nasconde in molta filosofia<br />
moderna, e che consiste precisamente (d’accordo con la fallacia<br />
trascendentale) nel confondere quello che c’è con quello che sappiamo,<br />
o cre<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> sapere, a proposito <strong>di</strong> quello che c’è, ossia i fatti con<br />
le interpretazioni, portandoci infine a sostenere che non ci sono fatti,<br />
ma solo interpretazioni. Confondendo l’ontologia con l’epistemologia,<br />
l’ontologia ermeneutica aveva dunque commesso un grosso errore, ed<br />
era del resto un errore che veniva da lontano. L’estetica, con l’esperienza<br />
della resistenza <strong>di</strong> ciò che incontriamo, forniva invece una potente alternativa.<br />
C’è qualcosa, lì fuori, <strong>di</strong> inemendabile, un non-io cocciuto e<br />
in<strong>di</strong>fferente – altro che “le intuizioni senza concetto sono cieche”. La<br />
minima illusione ottica ci <strong>di</strong>mostra che, per quanto possa fare il concetto,<br />
l’illusione resta lì, non corretta.<br />
Fisica ingenua<br />
Fu considerando questa circostanza che ebbi modo <strong>di</strong> mettere a<br />
frutto un insegnamento che forse non avevo capito, e che sicuramente<br />
avevo sottovalutato, le prime volte in cui mi ci ero imbattuto, alla fine<br />
degli anni Ottanta, quando insegnavo estetica a Trieste. Circostanza<br />
biografica <strong>di</strong> per sé irrilevante, se non fosse che proprio a Trieste era<br />
fiorita l’ultima ere<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione realistica che risale niente<br />
meno che a Franz Brentano e che – da Vienna a Graz a Padova e<br />
infine a Trieste – attraverso Meinong arriva a Benussi, a Musatti e, <strong>di</strong><br />
qui, a Gaetano Kanizsa. Lui lo avevo appena sfiorato al tempo del mio<br />
insegnamento, stava andando in pensione, ma mi ero imbattuto in un<br />
principio enunciato nella sua Grammatica del vedere che mi era parso<br />
subito la vera alternativa a “le intuizioni senza concetto sono cieche”,<br />
e cioè: “L’occhio, se proprio si vuole che ragioni, ragiona comunque<br />
a modo suo”.<br />
Chi avrei conosciuto molto meglio era il suo allievo, e poi mio<br />
grande amico, Paolo Bozzi, che aveva elaborato la nozione <strong>di</strong> “fisica<br />
ingenua”, che era anche il titolo <strong>di</strong> un suo bellissimo libro uscito all’inizio<br />
degli anni Novanta che mescolava autobiografia e percettologia,<br />
raccontando la sua vita e le sue scoperte. Ricordo <strong>di</strong> averlo letto in<br />
due o tre serate in osterie sul Carso, quelle che anche lui frequentava,<br />
mentre aspettavo <strong>di</strong> cenare, da solo o con il mio amico Pietro Kobau,<br />
che mi aveva prestato il libro, e poi al ritorno, nella stanza che affittavo<br />
nella casa <strong>di</strong> un altro mio amico, che sarebbe poi <strong>di</strong>ventato un<br />
grande giurista, Mauro Bussani. La casa era nel ghetto, proprio alle<br />
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