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senza via d’uscita, Ugolino ritorce la sua aggressività naturale su se stesso: ambo le man<br />
per lo dolor mi morsi (Inf XXXIII, 58). L’autolesionismo, l’automutilazione è una risposta<br />
biologica, osservata anche nei primati in condizioni di isolamento protratto. E’ un<br />
comportamento riscontrato anche in molti adolescenti e adulti che, nell’infanzia, hanno<br />
subito ripetute violenze fisiche e spesso sessuali. Condizione comune a queste situazioni è<br />
l’impossibilità di sfuggirvi. L’individuo è in trappola e non c’è nessuno all’esterno con cui<br />
comunicare. Ugolino, in carcere, è disumanizzato, è bestia che morde se stessa. Sono i figli<br />
a far osservare al padre il suo cannibalismo, è uno di loro a chiedergli aiuto prima di<br />
morirgli davanti: i figli di Ugolino ci appaiono piuttosto come parte di lui stesso, oserei dire<br />
che sono la sua autocoscienza: io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso (Inf XXXIII<br />
55-56). Egli non si rivolge a loro, sono essi che parlano al padre e lo rendono consapevole<br />
della parte bestiale di sè, della morte imminente in uno stato di totale isolamento, finchè egli<br />
ci appare cieco, demente, guidato dall’istinto, ormai privo della ragione, quando ci dice:<br />
ond’io mi diedi,<br />
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,<br />
e due dì li chiamai poi che fur morti<br />
(Inf XXXIII,72-74).<br />
Nella fase successiva, l’atto bestiale, perciò detto fiero, trova il suo oggetto nell’arcivescovo<br />
Ruggieri. Immaginiamo per un momento un conte Ugolino che sia stato salvato in extremis<br />
dalla morte, dopo aver sofferto l’esperienza dell’isolamento, della fame, della debolezza<br />
fisica e mentale fino all’obnubilamento delle facoltà intellettive; immaginiamo tale ipotetico<br />
personaggio: ne avremo un uomo segnato per il resto della vita da tale esperienza, roso<br />
dalla persistenza della memoria traumatica, roso dall’insopprimibile desiderio di<br />
vendic<strong>ars</strong>i, ossessionato da impotenti fantasie aggressive; giorno dopo giorno i suoi denti<br />
vorrebbero pascersi della carne, anzi del cervello, del suo persecutore. Ecco che il nostro<br />
personaggio vivrebbe il resto dei suoi giorni nell’inferno del ricordo, incapace di serenità,<br />
disumanizzato, in un mondo che ora può apparirgli soltanto ostile, che può attraversare<br />
soltanto armato di rabbia sorda e con gli occhi torti.<br />
Il Purgatorio come terapia.<br />
Nell’Inferno abbiamo incontrato la ìmalattia mortaleî, la disperazione, l’angoscia. Abbiamo<br />
incontrato la follia e la malattia fisica, insanabili e vi siamo passati davanti indenni (Purg I,<br />
58-59) per esserne messi in guardia prima che sia troppo tardi (Purg XXXI). Ora siamo<br />
pronti a entrare nella grande comunità terapeutica del Purgatorio, per la nostra cat<strong>ars</strong>i<br />
(Purg I, 5), che comincia con un simbolico lavacro (Purg I, 94-95). Ma il Purgatorio è ben<br />
più di una comunità terapeutica, è la vita. Qui non abbiamo le creature mostruose<br />
dell’inferno, i personaggi deformati nelle mente o nel corpo, irrigiditi nella ripetizione di atti<br />
sempre uguali, abbruttiti nella figura, nei gesti, nelle parole. Nel Purgatorio c’è movimento,<br />
perchè c’è speranza e volontà di raggiungere un fine: perder tempo a chi più sa più spiace