aggiante nel suo insieme, che s’innalza come un canto di lode e di ringraziamentoverso gli artisti di ogni tempo e spazio, poiché bacini di genialità, di responsabileverità e di bellezza. La bellezza è l’espressione visibile del bene, come il bene è lacondizione metafisica della bellezza. Platone ci aveva già anticipato scrivendo: “Lapotenza del bene si è rifugiata nella natura del bello”. E l’invito che Giovanni Paolo II,padre premuroso, ci fa, al termine del suo scritto, è un invito che si staglia come unpilastro nel cuore dell’umanità, e che deve coinvolgere tutti, artisti e non, e divenire lostendardo del nostro essere futuro; poiché tutti possiamo essere portatori di sanabellezza, soprattutto quando si conia con quella che i Greci chiamavano“kalokagathía”, ovvero bellezza-bontà 13 . Quindi scrive il Pontefice: “La bellezza chetrasmetterete alle generazioni di domani sia tale da destare in esse lo stupore! Difronte alla sacralità della vita e dell'essere umano, di fronte alle meravigliedell'universo, l'unico atteggiamento adeguato è quello dello stupore 14 . Di questoentusiasmo hanno bisogno gli uomini di oggi e di domani per affrontare e superare lesfide cruciali che si annunciano all'orizzonte. Grazie ad esso l'umanità, dopo ognismarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino.” Ci vuole coraggio emoralità e noi speriamo di averne abbastanza, per recuperare questo senso poetico efilosofico di stupore, nella vita, nello studio, nella scienza e nella pratica, uno stuporeche invece si è perso e si perde milioni di volte, in vari ambiti e ogni giorno. Ogni13 In linea di principio, parlare di estetica antica rappresenta una contraddizione perché l’estetica, come disciplina filosofica, nasce alla fine delSettecento. La disciplina cui, a metà del <strong>XVI</strong>II secolo, Baumgarten impose il nome di estetica, intendendo con essa la dottrina della conoscenzasensibile e della sua perfetta realizzazione nella bellezza, non ebbe infatti nell’antichità un suo proprio territorio teorico, ma tale mancataautonomia non autorizza comunque ad ignorare gli apporti del pensiero greco e romano alla storia dell’estetica occidentale. E’ quindi correttoaffermare che l’indagine estetica ha certamente avuto inizio in Europa oltre 2000 anni prima che fosse trovato per essa un termine specifico e sicostituisse un campo di studi autonomo. Tuttavia è certo che già Pitagora, Democrito e Platone si occuparono del bello. La parola kalón, che noitraduciamo con “bello”, aveva in realtà un significato più ampio rispetto a quello attuale: comprendeva non solo ciò che risultava gradito all’occhioe all’orecchio, ma anche qualità del carattere e della mente umana. Gli antichi mantengono inoltre separate la sfera del bello e la sfera dell’arte econferiscono alla bellezza un fondamento ontologico, per ricercarne conseguentemente le manifestazioni nella natura e, in particolare, nel corpodell’uomo, il più nobile e alto fra gli esseri naturali. Proprio per questo primato, l’uomo è in grado di esprimere la sua bellezza, oltre che nellaproporzione delle forme fisiche, anche nella dignità dei comportamenti pratici: da qui deriva il forte legame fra bello e buono, che nella Greciaclassica trova la sua espressione suprema nell’ideale formativo della kalokagathía: buono, agathós, rappresenta l’aspetto morale, unito allesfumature sociale e mondana che provengono dalle origini, bello, kalós, è la bellezza fisica, con l’inevitabile aura erotica e sensuale chel’accompagna. Già da solo, tuttavia, l’aggettivo kalós è in grado di qualificare, insieme alla bellezza fisica, anche quella morale, così comenell’aggettivo latino bellus, da cui deriva l’italiano bello, si rileva un diminutivo di bonus (dwenos → dwenolos → benlos). uello di “bello” era quindiun concetto dal significato molto complesso e ricco, cui i Greci ricondussero schematicamente:1. l’armonia, rilevabile nell’equilibrio cosmico;2. la simmetria, cioè misura appropriata;3. l’euritmia, cioè ritmo esatto e dalle corrette proporzioni.Tutto ciò è riassumibile nel concetto di kósmos, che si riferisce alla bellezza di un oggetto dovuta alla perfezione della sua struttura in ragione dellaproporzione della sue parti. Fin dall’età arcaica l’opera d’arte viene infatti concepita come un insieme composito di elementi che rappresentano lacopia e la riproduzione di un ordine esterno all’opera stessa e che, in virtù del loro trattamento rappresentativo, generano piacere e ammirazione.Nel campo delle arti verbali, come riferisce lo stesso Omero, il concetto di kósmos si collega all’armonia e alla coerenza: di un cantore si può direche esegua un canto secondo i canoni della bellezza se procede katá kósmon, secondo un bell’ordine, riproponendo cioè in una coerente strutturaverbale la successione reale degli eventi. Nella lirica arcaica il testo poetico viene inteso come un kósmos epéōn, cioè un bell’ordine di parole. Ilprocesso compositivo del kósmos è attivato, a sua volta, dall’impulso a riprodurre che, secondo Aristotele, caratterizza l’uomo in quanto essererivolto e orientato verso la conoscenza. Tale impulso riproduttivo viene definito dallo Stagirita come mímēsis, il processo imitativo cioè che puòriferirsi non solo ai procedimenti della poesia, delle arti figurative e della musica, ma anche della voce e della recitazione, fino ad arrivare adaccezioni più filosofiche, come l’assunzione di comportamenti ritenuti esemplari, il legame fra i nomi e le cose, il rapporto fra l’essere e il divenirefino ad arrivare addirittura alla contemplazione delle forme ideali.14 Aristotele afferma che la filosofia nasce dallo stupore (taumazein). Se poi consideriamo anche la civiltà orientale dobbiamo dire che poesia efilosofia sono state ancor più vicine grazie al sentire comune, attraverso lo stupore. Se pensiamo che il Libro delle Odi, cioè l’antologia dell’anticapoesia cinese, è un testo del canone confuciano, e alla filosofia confuciana i poeti delle varie epoche si sono sempre ispirati (mentre i pittori siispiravano prevalentemente al Taoismo), si comprende perché Confucio dedicò gran parte della sua vita alla raccolta e allo studio della poesiaantica, ed elaborò la teoria secondo la quale solo i poeti possono governare, poiché solo essi sono i veri sapienti. Dunque possiamo dire che lapoesia non solo è uno strumento conoscitivo, ma che essa è sapienza forse prima ancora che memoria e canto. E questo vale non tanto per lapoesia “ filosofica”, ma spesso proprio dove essa si mostra più semplice e dimessa, legata al quotidiano. Petrarca ha scritto poesie d’amore, eppureè il creatore del movimento umanistico, colui che getta le basi culturali e filosofiche di tutta la civiltà rinascimentale. Io penso, pertanto e giunto aduna età in cui, si direbbe in modo cinese, La Terra riflette il ciclo della decadenza e l’otto sta per ripetersi per l’ottava volta, che anche nella scienzaoccorre essere filosofici e più ancora poetici. Penso che lo stupore tenga insieme tutta la letteratura e le scienze. Specialmente lo stupore per lecose quotidiane, le cose vicine. Come dice Pascoli nel “Fanciullino”, uno dei trattati sull’arte più importanti dell’età moderna, la poesia allontana lecose vicine (per metterle a fuoco, per vederle, per toglierle da quella vicinanza eccessiva che le nasconde) e avvicina le cose lontane, ci familiarizzacon loro (anche qui mettendole alla giusta distanza per poterle vedere). Nello stupore l’uomo tace. Eppure la poesia è lingua, stupore fatto lingua.Non è la lingua dell’uomo, ma quella delle cose; la lingua, per dirla filosoficamente, dell’essere. La stessa lingua di cui deve essere fatta la medicina oogni atto del comprendere e del curare.14
volta che l’arte medica come erogazione e ricerca invece che essere espressione diuno sguardo che tenta di mettere a fuoco la vita diviene riflessione umbelicale, ospecchio di vanità, o gioco verboso, si perde, ma, al contempo, milioni di volte sirecupera, a volte in latitudini stilistiche strane, lontane tra loro ed anche per questoancora più intricanti. Quando l’esperienza umana della malattia si impregna disofferenza, percepiamo un cambiamento globale nel nostro modo di essere. Lamalattia distribuisce impotenza e fragilità, crea dipendenza dalle altre personeriducendo i confini spaziali e temporali. Il nostro corpo, che era qualcosa di nonavvertito, di “fuori da me”, diventa percepibile, prende parola e attraverso il dolorepone delle domande di senso: la malattia non é affatto una cosa ovvia, ma ha bisognodi essere capita e spiegata per trovare una risposta a quelle domande. Essa coinvolgel’uomo nella sua globalità, ma ormai sono secoli che l’uomo moderno non prende inconsiderazione le interrelazioni tra mente e corpo. Il pluri-citato Descartes (o Cartesioche dir si voglia), quando decise di salvare le realtà spirituali di Dio e dell’uomo dallaminaccia del materialismo che andava diffondendosi con la scienza meccanicistica, haoperato una spartizione tra il regno dello spirito (rex cogitans) e il regno della materia(rex extensa). Da allora l’individuo può considerarsi ed essere considerato da unpunto di vista strettamente metafisico o squisitamente meccanico. La scissione, lascomposizione, l’iper-specializzazione e l’interpretazione analitica offrono al medicouna visione parziale: la testa china e gli occhi fissi su quella parte di corpodanneggiata, impediscono al medico di sollevare il capo per acc<strong>org</strong>ersi che il “guasto”genera un disagio “non localizzato”, irrispettoso dei confini imposti dalla scienza, ed éresponsabile del dolore e della sofferenza del malato. Dolore e sofferenza sonoun’esperienza difficilmente archiviabile, diversa a seconda non soltanto dellapersonalità ma anche della cultura. Le culture sono sistemi di significati, la civiltàcosmopolita é un sistema di tecniche. La cultura rende tollerabile il doloreintegrandolo in una situazione carica di senso; la civiltà cosmopolita distacca il doloreda ogni contesto soggettivo o intersoggettivo per annientarlo. La cultura rendesopportabile il dolore interpretandone la necessità; soltanto il dolore che si considerarimediabile non si può sopportare. Perché un dolore vissuto costituisca una sofferenzanel senso pieno del termine, bisogna che sia inserito in un quadro culturale. Perpermettere agli individui di trasformare il dolore corporeo in un’esperienza personale,ogni cultura offre almeno quattro sottoprogrammi in rapporto tra loro: parole, droghe,miti e modelli. Nel formulare un progetto terapeutico é importante che il medico tengain considerazione tutti gli aspetti nella loro complessa interrelazione, soffermandosi sulche cosa si prova, ma anche sul chi prova. La conoscenza dell’universo chel’individuo-malato si porta con sé può tornare molto utile anche a fini terapeutici, ecoinvolge il paziente in una relazione “personalizzata” che lo induce ad assumere laresponsabilità del suo percorso di cura. Umanizzare la medicina significa che se ilmedico é consapevole che per il paziente la malattia é un’esperienza vissuta, diventadi grande valore la partecipazione del medico nella ricerca di senso. Come scrive IvanIllich nel libro postumo, "La perdita dei sensi", i comandi <strong>org</strong>anizzativi che stannodentro gran parte della tecnologia contemporanea derubano gli esseri umani dei lorosensi e persino della capacità di morire. La divinizzazione dell'uomo operata dallaciviltà del benessere, mirando a liberarlo dalla sofferenza e dalla morte, lo rendeschiavo di una sopravvivenza tecnica che è un'artificiale imitazione del vivere, senzaetica, né bellezza, né alcuna morale. Ricordiamo, in conclusione, la tesi di Gi<strong>org</strong>ioIsrael il quale sostiene che, a partire dall'800, la medicina ha aderito al modello dellescienze fisico-matematiche "esatte" tanto che oggi si considera quasi degradanteconsiderarla come un'"arte". Al contrario, la concezione della medicina come scienza"oggettiva" è gravemente riduttiva. La medicina ruota attorno a qualcosa che nonesiste nelle scienze esatte: la pratica clinica. L'analisi storica ed epistemologica mostrala natura specifica dei concetti di normalità e di patologia e la loro irriducibilità a un15
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