CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente
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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />
molto evidente. Il sistema stoico faceva <strong>della</strong> coscienza <strong>della</strong> propria forza d'animo il<br />
cardine su cui doveva ruotare ogni intenzione morale, e, sebbene i suoi seguaci parlassero<br />
di doveri, e anche li determinassero benissimo, pure ponevano il movente, e il vero e<br />
proprio motivo determinante <strong>della</strong> volontà, in una elevazione del carattere al di sopra dei<br />
moventi dei sensi, inferiori, e potenti solo per la debolezza dell'anima. La virtù era dunque,<br />
per loro, una sorta di eroismo del “saggio”, che si innalza al di sopra <strong>della</strong> natura animale<br />
dell'uomo e basta a se stesso. Agli altri propone, bensì, doveri, ma lui si eleva al di sopra di<br />
essi, e non è soggetto alla tentazione di trasgredire la legge morale. Ma, tutto ciò gli Stoici<br />
non avrebbero potuto fare, se si fossero rappresentati questa legge in tutta la purezza e<br />
severità che essa possiede nel precetto del Vangelo. Se per idea intendo una perfezione a<br />
cui non si può trovare nulla di adeguato nell'esperienza, le idee morali non sono perciò<br />
nulla di trascendente, tali, cioè, che noi non ne possiamo neppure determinare<br />
sufficiente<strong>mente</strong> il concetto, o a cui sia incerto se vi corrisponda dove che sia un oggetto,<br />
come accade alle idee <strong>della</strong> ragione speculativa: esse servono da modello alla perfezione<br />
pratica, da direttiva indispensabile <strong>della</strong> condotta morale, e, al tempo stesso, da “criterio di<br />
paragone”. Se, ora, considero la “morale cristiana” sotto il suo aspetto filosofico,<br />
paragonata con le idee delle scuole greche, essa apparirebbe così: le idee dei Cinici, degli<br />
Epicurei, degli Stoici e dei Cristiani sono: la semplicità naturale, la prudenza, la saggezza e<br />
la santità. Rispetto al cammino per pervenirvi, i filosofi greci si distinguevano tra loro in<br />
quanto i Cinici ritenevano sufficiente a ciò l'intelletto umano comune, gli altri solo la via<br />
<strong>della</strong> scienza: tutti, comunque, il semplice “uso delle forze naturali”. La morale cristiana,<br />
poiché stabilisce (come si deve fare) il proprio precetto con tanta purezza e severità, toglie<br />
all'uomo la fiducia di potervisi piena<strong>mente</strong> adeguare, almeno in questa vita; ma, al tempo<br />
stesso, anche la ristabilisce, nel senso che, se noi operiamo bene per quanto è in nostro<br />
potere, possiamo sperare che quello che non è in nostro potere ci venga concesso da<br />
un'altra parte, sappiamo noi in che modo o no Aristotele e Platone si differenziavano solo<br />
rispetto all'origine dei nostri concetti morali.<br />
A14. A questo proposito, e per mostrare il carattere proprio di tali concetti, mi limito a<br />
osservare ancora che, mentre si attribuiscono a Dio diverse proprietà la cui qualità si pensa<br />
che convenga anche alle creature, con la sola differenza che nel primo caso esse vengono<br />
elevate al più alto grado - per esempio, potenza, scienza, presenza, bontà, eccetera, che<br />
vengono ad essere onnipotenza onniscienza, onnipresenza, infinita bontà, eccetera -, ve ne<br />
sono tre che vengono attribuite a Dio in modo esclusivo, e senza specificazione di<br />
grandezza. Tutte e tre sono morali: egli è il solo “santo”, il solo “beato”, il solo “saggio”. Tali<br />
concetti, infatti, portano già in sé il carattere dell'illimitatezza. Secondo il loro ordine, egli è<br />
dunque anche il “santo legislatore” (e creatore), il “buon reggitore” (e conservatore) e il<br />
“giusto giudice”: tre proprietà che contengono in sé tutto ciò per cui Dio diviene oggetto di<br />
religione. A quelle si aggiungono da sé, nella ragione, le perfezioni metafisiche conformi.<br />
A15. L'”erudizione” non è, propria<strong>mente</strong>, altro che i1 complesso delle scienze “storiche”. Di<br />
conseguenza, solo l'insegnante di teologia rivelata può dirsi «erudito di cose divine». Se si<br />
volesse chiamare erudito anche chi è in possesso di scienze razionali (matematica e<br />
filosofia) - sebbene questo contrasti già con il significato <strong>della</strong> parola (nell'erudizione<br />
rientrando solo ciò che deve essere “insegnato”, e che, quindi, uno non può acquisire da sé,<br />
con la ragione) -, in ogni caso il filosofo, con la sua conoscenza di Dio intesa come scienza<br />
positiva, farebbe troppo cattiva figura nel farsi chiamare, per questo, «erudito».<br />
A16. Ma, anche qui, non potremmo proteggerci dietro il pretesto di un'esigenza <strong>della</strong><br />
“ragione”, se non ci stesse davanti un concetto, problematico bensì, ma inevitabile <strong>della</strong><br />
ragione: quello, cioè, di un essere assoluta<strong>mente</strong> necessario. Tale concetto ha ora da essere<br />
determinato, e ciò avviene quando vi si aggiunge la spinta ad estenderlo: fondamento<br />
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