30.05.2013 Views

CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />

può mancare di distinguere se qualcosa rientri in questo od in quella.<br />

Le poche osservazioni che seguono possono sembrare superflue, a proposito di una verità<br />

così manifesta: ma, quanto meno, esse possono servire a dare una maggior chiarezza al<br />

giudizio <strong>della</strong> comune ragione umana.<br />

Il princìpio <strong>della</strong> felicità può bensì fornire massime, ma mai tali che siano adatte a divenire<br />

leggi <strong>della</strong> volontà, anche quando ci si proponga come oggetto la felicità “universale”.<br />

Poiché, infatti, la conoscenza di essa riposa solo su dati d'esperienza, dipendendo ogni<br />

giudizio in proposito dall'opinione di ciascuno - che, per di più, è molto mutevole -, è<br />

possibile bensì dare regole “generali”, ma mai “universali”: regole, cioè, che si verificano in<br />

media più spesso, ma non che debbano essere valide sempre e necessaria<strong>mente</strong>. Su di esse,<br />

perciò, non può fondarsi alcuna “legge” pratica. Appunto perché qui è posto a fondamento<br />

<strong>della</strong> regola stessa un oggetto dell'arbitrio, che, perciò, deve precederla, la regola non può<br />

mai fondarsi su altro che su ciò che si sente, e perciò non può che riferirsi all'esperienza e<br />

fondarsi su di essa: di conseguenza, non può aversi che un'indefinita varietà di giudizi.<br />

Questo principio non prescrive dunque a tutti gli esseri razionali le stesse regole pratiche,<br />

anche se esse stanno tutte sotto un titolo comune, quello <strong>della</strong> felicità. La legge morale, per<br />

contro, è pensata come oggettiva<strong>mente</strong> necessaria, appunto perché deve valere per ogni<br />

essere dotato di ragione e volontà.<br />

La massima dell'amor di sé (prudenza) si limita a “consigliare”; la legge <strong>della</strong> moralità<br />

“comanda”. E vi è una fondamentale differenza tra ciò che viene “consigliato” e ciò a cui<br />

siamo “tenuti”.<br />

Che cosa si debba fare in forza del principio dell'autonomia <strong>della</strong> volontà, è scorto<br />

dall'intelletto più comune facilissima<strong>mente</strong> e senza bisogno di riflessione; che cosa si<br />

debba fare sul presupposto <strong>della</strong> sua eteronomia, è visto difficil<strong>mente</strong>, ed esige conoscenza<br />

del mondo. In altri termini, quale sia il “dovere”, ciascuno lo vede da sé; ma che cosa possa<br />

apportare veri e duraturi vantaggi è questione che, quando debba venire estesa all'intera<br />

esistenza, rimane sempre avvolta da un'impenetrabile oscurità, e richiede molta prudenza,<br />

per adattare con le opportune eccezioni, in modo anche solo sopportabile, la regola pratica<br />

indirizzata a ciò ai fini <strong>della</strong> vita. Eppure la legge morale comanda a ciascuno, esigendo la<br />

più puntuale obbedienza. Dunque, il giudizio circa ciò che si deve fare secondo questa legge<br />

non dev'essere così difficile, che l'intelletto più comune e meno esercitato, anche senza<br />

esperienza del mondo, non possa venirne a capo.<br />

Soddisfare al comando categorico <strong>della</strong> moralità è in potere di ognuno, in ogni tempo;<br />

soddisfare alle prescrizioni empirica<strong>mente</strong> condizionate <strong>della</strong> felicità è possibile solo<br />

qualche volta, e, per lo più, non lo è neppure per quel che riguarda un singolo scopo. La<br />

ragione è che, nel primo caso, interessa solo la massima, che dev'essere pura e genuina,<br />

mentre nel secondo contano anche le forze e il potere fisico di realizzare un oggetto<br />

desiderato. Comandare che ciascuno cerchi di render se stesso felice sarebbe pazzesco: non<br />

si comanda mai a qualcuno ciò che egli immancabil<strong>mente</strong> vuole già per sé. Gli si<br />

dovrebbero comandare, semplice<strong>mente</strong>, le misure adatte; o, meglio, offrirgliele, non<br />

potendo egli far sempre ciò che vuole. Ma comandare la moralità sotto il nome del dovere è<br />

perfetta<strong>mente</strong> ragionevole; anzitutto perché non tutti vogliono volentieri obbedire a tale<br />

precetto. quand'esso contrasti con le inclinazioni; e poi perché, per quel che riguarda i<br />

modi per mettere in pratica la legge, questi non han bisogno, qui, di venire insegnati, dato<br />

che, sotto questo rispetto, ciò che ciascuno vuole, lo può anche senz'altro.<br />

Chi ha perduto al gioco, può ben “adirarsi” con se stesso e con la propria leggerezza; ma se<br />

è cosciente di aver “barato al gioco” (pur vincendo, con questo mezzo), deve “disprezzare”<br />

se stesso, non appena si pone a confronto con la legge morale. Questa ha da essere,<br />

dunque, qualcosa di diverso dal principio <strong>della</strong> propria felicità: perché il dover dire a se<br />

Pag. 23/103

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!