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CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />

(la virtù) possa produrre una coscienza <strong>della</strong> superiorità sulle proprie inclinazioni, e,<br />

pertanto, dell'indipendenza da esse e, quindi, anche dalla scontentezza che sempre le<br />

accompagna: dunque, un compiacimento negativo per il proprio stato, cioè la contentezza,<br />

che, alla sua fonte, è “contentezza” <strong>della</strong> propria persona. In questa guisa (e cioè<br />

indiretta<strong>mente</strong>) la libertà stessa diviene capace di un godimento che non si può chiamare<br />

felicità, perché non dipende dalla positiva presenza di un sentimento, e neppure, parlando<br />

esatta<strong>mente</strong>, “beatitudine”, perché non implica una indipendenza completa da inclinazioni<br />

e bisogni; ma che, tuttavia, è simile a quest'ultima, in quanto, cioè, per lo meno la<br />

determinazione <strong>della</strong> propria volontà può mantenersi libera dal loro influsso, e quindi,<br />

almeno per la sua origine, è analoga all'autosufficienza che si può attribuire soltanto<br />

all'Essere supremo.<br />

Da questa soluzione dell'antinomia <strong>della</strong> ragion pura pratica segue che, nei princìpi pratici,<br />

si può pensare almeno come possibile un legame naturale e necessario tra la coscienza<br />

<strong>della</strong> moralità e l'aspettazione di una felicità ad essa proporzionata, come sua conseguenza<br />

(pur senza che si riesca a conoscerlo e ad intenderlo); mentre, per contro, è impossibile che<br />

i princìpi <strong>della</strong> ricerca <strong>della</strong> felicità producano moralità. Sicché il bene “supremo” (come<br />

condizione prima del sommo bene) è la moralità, mentre la felicità ne costituisce, bensì, il<br />

secondo elemento, ma nel senso di esserne solo la conseguenza morale, e tuttavia<br />

necessaria. Solo in questa subordinazione il “sommo bene” è l'intero oggetto <strong>della</strong> ragion<br />

pura pratica, che deve rappresentarselo necessaria<strong>mente</strong> come possibile, dal momento che<br />

essa comanda di far di tutto per produrlo. Ma, poiché la possibilità di un tal legame del<br />

condizionato con la sua condizione appartiene intera<strong>mente</strong> al rapporto sovrasensibile delle<br />

cose, e non può assoluta<strong>mente</strong> prodursi secondo le leggi del mondo sensibile (nonostante<br />

che appartengano al mondo sensibile le conseguenze pratiche di tale idea, e cioè le azioni<br />

indirizzate a rendere reale il sommo bene), cercheremo di esporre i fondamenti di quella<br />

possibilità anzitutto rispetto a ciò che è immediata<strong>mente</strong> in nostro potere, e poi in ciò che<br />

la ragione ci presenta (necessaria<strong>mente</strong>, secondo princìpi pratici) come completamento<br />

<strong>della</strong> nostra incapacità a render possibile il sommo bene: completamento che non è in<br />

nostro potere.<br />

3. Del primato <strong>della</strong> ragion pura pratica nel suo collegamento con la speculativa<br />

Per «primato» tra due o più cose, collegate mediante ragione, intendo la precedenza<br />

dell'una rispetto alle altre, come fondamento primo di determinazione del collegamento<br />

con tutte le altre. In un più ristretto significato pratico, intendo la precedenza dell'interesse<br />

dell'una (non posponibile a nessun altro), a cui l'interesse delle altre viene subordinato. Ad<br />

ogni facoltà dell'animo si può attribuire un “interesse”, cioè un principio che contiene la<br />

condizione, a cui soltanto l'esercizio di quella facoltà è promosso. Come facoltà dei<br />

princìpi, la ragione determina l'interesse di tutte le forze dell'animo, compreso il suo<br />

stesso. L'interesse del suo uso speculativo consiste nella “conoscenza” dell'oggetto,<br />

condotta fino ai supremi princìpi a priori; quello dell'uso pratico, nella determinazione<br />

<strong>della</strong> “volontà” rispetto allo scopo ultimo e totale. Ciò che si richiede per la possibilità di un<br />

uso <strong>della</strong> ragione in genere, e cioè che i princìpi e le proposizioni che li affermano non si<br />

contraddicano, non costituisce una parte del suo interesse, ma è la condizione perché si<br />

abbia, in genere, una ragione: solo l'estensione, non la concordanza pura e semplice con se<br />

stessa, fa parte del suo interesse.<br />

Se la ragion pratica non potesse pensare come dato, o come altrimenti ammissibile, se non<br />

ciò che la ragione “speculativa” è già stata in grado di raggiungere con le sue forze,<br />

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