CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente
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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />
CONCETTO DI SOMMO BENE<br />
Il concetto di “sommo” ["höchst"] contiene già una ambiguità che, se non ci si bada, può<br />
cagionare dispute inutili. Sommo può infatti significare «supremo» ("supremum") o anche<br />
«perfetto» ("consummatum"). Suprema è quella condizione che a sua volta è<br />
incondizionata, cioè non subordinata a nessun'altra ("originarium"); perfetto è quel tutto<br />
che non è parte di alcun tutto maggiore <strong>della</strong> stessa specie ("perfectissimum"). Che la virtù<br />
(cioè il meritare di esser felici) sia la “condizione suprema” di tutto ciò che comunque può<br />
apparire desiderabile - quindi anche di ogni nostra ricerca di felicità - e, quindi, che sia il<br />
“bene supremo”, è stato dimostrato nell'Analitica. Ma con questo essa non è ancora il bene<br />
totale e completo, come oggetto <strong>della</strong> facoltà di desiderare di esseri razionali finiti; perché,<br />
per esser questo, dovrebbe aggiungervisi ancora la “felicità”: non solo agli occhi interessati<br />
dell'individuo, che fa di sé il proprio scopo, ma anche nel giudizio di una ragione<br />
imparziale, che considera la felicità in genere, nel mondo, come uno scopo in sé. Infatti,<br />
essere bisognevoli di felicità, e anche degni di essa, ma non esserne partecipi, non è cosa<br />
compatibile con il volere perfetto di un essere razionale, che avesse, al tempo stesso,<br />
potestà su ogni cosa (anche se noi ci rappresentiamo un tal essere solo per esperimento).<br />
In quanto, dunque, virtù e felicità insieme costituiscono, in una persona, il possesso del<br />
sommo bene - dunque, anche la felicità, ripartita esatta<strong>mente</strong> in proporzione alla moralità<br />
(come valore <strong>della</strong> persona e sua dignità ad esser felice) costituisce il “sommo bene” in un<br />
mondo possibile -, questo insieme significa il tutto, il bene perfetto; in cui, però, la virtù,<br />
come condizione, è sempre il bene supremo, non avendo altre condizioni al di sopra di sé, e<br />
la felicità è sempre qualcosa che, a chi lo possiede, riesce gradito, però non è buono per sé<br />
solo assoluta<strong>mente</strong> e sotto tutti i rispetti, ma presuppone sempre, come condizione, il<br />
comportamento morale conforme alla legge.<br />
Due determinazioni congiunte “necessaria<strong>mente</strong>” in un concetto devono avere tra loro il<br />
legame che c'è tra il fondamento e la conseguenza: e, precisa<strong>mente</strong>, o in modo tale che la<br />
loro “unità” è “analitica” (connessione logica), o in modo tale che è “sintetica”<br />
(collegamento reale): quella viene considerata secondo la legge d'identità, questa di<br />
causalità. La connessione <strong>della</strong> virtù con la felicità può, dunque, essere intesa, o nel senso<br />
che lo sforzo d'esser virtuosi e il perseguimento razionale <strong>della</strong> felicità non siano due<br />
operazioni diverse, ma del tutto identiche, perché alla prima non occorre dare come<br />
fondamento nessuna massima diversa che alla seconda; oppure, quella connessione può<br />
essere intesa nel senso che la virtù produca la felicità come qualcosa di diverso dalla<br />
coscienza <strong>della</strong> virtù stessa: così come la causa produce un effetto.<br />
Tra le antiche scuole greche ve n'erano propria<strong>mente</strong> soltanto due che, nella<br />
determinazione del sommo bene, seguissero un metodo del tutto concorde, nel senso che<br />
entrambe non consideravano virtù e felicità come due elementi diversi del sommo bene, e<br />
che, perciò, cercavano l'unità del principio secondo la regola dell'identità. A questo punto,<br />
però, tornavano a dividersi, scegliendo diversa<strong>mente</strong>, tra i due, l'elemento da considerarsi<br />
fondamentale. L'”epicureo” diceva: esser consapevoli <strong>della</strong> propria massima che conduce<br />
alla felicità, questo è la virtù; e lo “stoico”: essere consapevoli <strong>della</strong> propria virtù, questo è<br />
la felicità. Per il primo, prudenza equivaleva a moralità; per il secondo - che sceglieva per la<br />
virtù una denominazione superiore -, solo la “moralità” era vera saggezza.<br />
Ci si deve rammaricare che l'acume di queste persone (che pure sono ammirevoli, per aver<br />
battuto, già in tempi così lontani, tutte le vie concepibili <strong>della</strong> speculazione filosofica) si<br />
applicasse fuor di proposito, a escogitare un'identità tra due concetti così radical<strong>mente</strong><br />
eterogenei come la virtù e la felicità. Ma ciò era conforme allo spirito dialettico del loro<br />
tempo, che anche oggi, a volte, svia teste sottili, inducendole a cercar di cancellare<br />
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