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CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />

differenze essenziali e insuperabili nei princìpi, col trasformarle in questioni di parole,<br />

stabilendo, così, un'apparente e artificiosa unità del concetto, semplice<strong>mente</strong> sotto diverse<br />

denominazioni. Questo accade, general<strong>mente</strong>, in quei casi in cui la congiunzione di<br />

fondamenti eterogenei si trova così in alto, o così nel profondo - oppure richiederebbe un<br />

rivolgimento così radicale delle dottrine comune<strong>mente</strong> accolte nel sistema filosofico -, che<br />

si ha paura di approfondire effettiva<strong>mente</strong> la differenza reale. e si preferisce trattarla come<br />

una diversità mera<strong>mente</strong> formale.<br />

Mentre entrambe le scuole cercavano di pensare come uno solo i due princìpi pratici <strong>della</strong><br />

virtù e <strong>della</strong> felicità, tuttavia esse non erano d'accordo sul modo di far risultare tale<br />

identità. Anzi, si collocavano ai due estremi opposti, in quanto l'una poneva il suo principio<br />

dalla parte <strong>della</strong> sensibilità, l'altra dalla parte <strong>della</strong> ragione: quella, nella coscienza del<br />

bisogno sensibile, questa nell'indipendenza <strong>della</strong> ragion pratica da ogni fondamento di<br />

determinazione sensibile. Il concetto di virtù, secondo l'”epicureo”, risiedeva già nella<br />

massima di perseguire la propria felicità; il concetto di felicità, per contro, secondo lo<br />

“stoico” era già contenuto nella coscienza <strong>della</strong> propria virtù. Ma ciò che è contenuto in un<br />

altro concetto coincide, bensì, con una parte di esso, ma non con il tutto; e due interi<br />

possono, inoltre, essere specifica<strong>mente</strong> diversi tra loro, pur essendo fatti dello stesso<br />

materiale, quando le parti siano collegate a formare il tutto in due modi total<strong>mente</strong> diversi.<br />

Lo stoico affermava che la virtù è l'”intero sommo bene”, e che la felicità è semplice<strong>mente</strong><br />

la coscienza del suo possesso, in quanto appartenente allo stato del soggetto. L'epicureo<br />

affermava che la felicità è l'”intero sommo bene”, e la virtù solo la forma <strong>della</strong> massima per<br />

procurarsela: cioè, consiste in un uso razionale dei mezzi per ottenerla.<br />

Dall'Analitica, però, risulta chiaro che le massime <strong>della</strong> virtù e quelle <strong>della</strong> propria felicità<br />

sono, in rapporto al loro supremo principio pratico, di natura del tutto eterogenea, e, lungi<br />

dal concordare, pur rientrando in un unico sommo bene per renderlo possibile, si limitano<br />

forte<strong>mente</strong> in uno stesso soggetto, e si danneggiano. Dunque, la questione: “com'è<br />

pratica<strong>mente</strong> possibile il sommo bene?”, rimane, nonostante tutti i “tentativi eclettici” fatti<br />

fin qui, un problema insoluto. E ciò che ne rende difficile la soluzione è indicato<br />

dall'Analitica: felicità e moralità sono due “elementi” del sommo bene, specifica<strong>mente</strong> del<br />

tutto “diversi”, sicché il loro legame non può esser conosciuto analitica<strong>mente</strong> (quasi che, se<br />

uno cerca la propria felicità, in questo suo comportamento risulti "ipso facto" virtuoso, per<br />

semplice risoluzione di concetti; oppure, chi segue la virtù risulti "ipso facto" felice, nella<br />

coscienza di questo suo comportamento), ma è una “sintesi” di concetti. Ma, poiché tale<br />

collegamento è conosciuto a priori, e pertanto come pratica<strong>mente</strong> necessario, e non è<br />

ricavato dall'esperienza; e la possibilità del sommo bene non si fonda, quindi, su un<br />

qualsiasi principio empirico: la deduzione di tale concetto dovrà essere “trascendentale”. E'<br />

(moral<strong>mente</strong>) necessario a priori, “produrre il sommo bene” mediante la libertà del volere:<br />

dunque, anche la condizione <strong>della</strong> sua possibilità deve riposare unica<strong>mente</strong> su fondamenti<br />

conoscitivi a priori.<br />

1. L'antinomia <strong>della</strong> ragion pratica<br />

Nel sommo bene per noi pratico - che, cioè, va reso reale mediante la nostra volontà - virtù<br />

e felicità sono pensate come necessaria<strong>mente</strong> collegate, sicché l'una non può essere<br />

assunta dalla ragion pura pratica senza che anche l'altra entri a far parte del sommo bene.<br />

Ora, tale collegamento (come qualsiasi altro) è o “analitico” o “sintetico”. Ma poiché esso<br />

non può esser analitico, come testé è stato mostrato, dev'essere sintetico, e, precisa<strong>mente</strong>,<br />

pensato come connessione <strong>della</strong> causa con l'effetto: perché esso concerne un bene pratico,<br />

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