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CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />

stessi: «io sono un “indegno”, anche se ho riempito la mia borsa», deve pur avere una<br />

regola del giudizio diversa da quella per cui si plaude a se stessi dicendo: «sono un uomo<br />

“prudente”, perché ho arricchito le mie finanze».<br />

Vi è, infine, ancora una cosa, nell'idea <strong>della</strong> ragion pratica, che accompagna la<br />

trasgressione di una legge morale, e cioè il “meritare una pena”. Ebbene, il divenir<br />

partecipi <strong>della</strong> felicità non si lascia collegare in nessun modo con il concetto di una pena in<br />

quanto tale. Sebbene, infatti, colui che punisce possa avere, al tempo stesso, la buona<br />

intenzione di indirizzare la pena anche a quello scopo, essa tuttavia, dev'essere anzitutto<br />

giustificata per se stessa in quanto pena, cioè in quanto semplice male fisico; in guisa che il<br />

punito, quand'anche tutto dovesse fermarsi qui, senza che si scorga nessun vantaggio<br />

dietro quella durezza, debba egual<strong>mente</strong> riconoscere che ha avuto ciò che gli spettava, e<br />

che la sua sorte si adatta perfetta<strong>mente</strong> alla sua condotta. In ogni pena come tale vi<br />

dev'essere anzitutto giustizia: essa costituisce l'essenziale di questo concetto. Ad essa può<br />

congiungersi anche la benevolenza, ma il colpevole non ha il benché minimo motivo, dato<br />

il suo comportamento, per contar su di essa. La pena, dunque, è un male fisico che, anche<br />

se non fosse collegato con il male morale per una conseguenza “naturale”, dovrebbe esservi<br />

collegato come conseguenza secondo i princìpi di una legislazione morale. Se, ora, qualsiasi<br />

colpa, anche prescindendo dalle conseguenze fisiche rispetto al suo autore, è punibile per<br />

se stessa - cioè deve andare (almeno in parte) a detrimento <strong>della</strong> felicità -, è chiaro che<br />

sarebbe incongruo dire: il delitto è consistito precisa<strong>mente</strong> nell'attirare su di sé una pena,<br />

danneggiando la propria felicità (ciò che, secondo il principio dell'amor di sé,<br />

dovrebb'essere il vero concetto di qualunque delitto). La pena, a questo modo, sarebbe il<br />

fondamento per cui qualcosa è chiamato un delitto, e la giustizia dovrebbe piuttosto<br />

consistere nell'omettere qualsiasi punizione, e nell'impedire financo la punizione naturale:<br />

perché, allora, l'azione non conterrebbe più nulla di cattivo, essendo ormai tenuti lontani i<br />

mali fisici che altrimenti ne seguirebbero, e in forza dei quali soltanto l'azione era detta<br />

cattiva. Insomma, considerare ogni premio e castigo soltanto come un artificio nelle mani<br />

di una potenza superiore, destinato unica<strong>mente</strong> a fare agire gli esseri ragionevoli in vista<br />

del loro scopo finale (la felicità), significa così palese<strong>mente</strong> ammettere un meccanismo che<br />

toglie ogni libertà al loro volere, che sarebbe inutile soffermarsi su questo punto.<br />

Ancor più sottile, sebbene altrettanto falsa, la pretesa di coloro che ammettono un certo<br />

senso morale particolare, che determinerebbe lui, e non la ragione, la legge morale; per cui<br />

la coscienza <strong>della</strong> virtù sarebbe immediata<strong>mente</strong> legata alla soddisfazione e al<br />

compiacimento, quella del vizio all'irrequietudine interiore e al dolore. Costoro fanno, così,<br />

dipendere tutto dall'aspirazione alla propria felicità. Senza ripetere ciò che è stato detto più<br />

su, mi limiterò a far rilevare l'illusione che qui si nasconde. Per rappresentarsi il vizioso<br />

come tormentato da un'inquietudine interiore per la coscienza delle sue malefatte, occorre<br />

immaginarselo già in precedenza, nel fondo essenziale del suo carattere, come moral<strong>mente</strong><br />

buono, almeno in qualche grado; così come ci si deve immaginare già come virtuoso colui<br />

che si compiace <strong>della</strong> coscienza di azioni conformi al dovere. Il concetto <strong>della</strong> moralità e del<br />

dovere doveva precedere, dunque, qualsiasi considerazione di tale contentezza, e non può<br />

assoluta<strong>mente</strong> venire ricavato da essa. Ora, per sentire quella contentezza nella coscienza<br />

<strong>della</strong> propria conformità al dovere, o per sentire l'amaro morso quando ci si può<br />

rimproverare una sua trasgressione, occorre anzitutto apprezzare l'importanza di ciò che<br />

chiamiamo dovere: l'”autorità” <strong>della</strong> legge morale, e il valore immediato che l'obbedire ad<br />

essa conferisce alla persona agli occhi di se medesima. Non si può, dunque, sentire tale<br />

contentezza o tranquillità d'animo prima di rendersi conto dell'obbligatorietà, e, anzi,<br />

facendone il fondamento di essa. Bisogna, quanto meno, già trovarsi a mezza strada sul<br />

cammino dell'onestà, per potersi anche solo rappresentare quei sentimenti. Del resto, non<br />

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