CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente
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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />
possibilità, che la nostra ragione non trova pensabile altrimenti che presupponendo<br />
un'intelligenza suprema. L'ammissione <strong>della</strong> sua esistenza è, dunque, legata alla coscienza<br />
del nostro dovere, sebbene, in sé, tale ammissione riguardi la ragione teoretica: rispetto<br />
alla quale soltanto, essa, considerata come fondamento di spiegazione, può chiamarsi<br />
“ipotesi”. Per contro, rispetto all'intelligibilità di un oggetto propostoci dalla legge morale<br />
(il sommo bene), e, perciò, rispetto a un'esigenza di carattere pratico, essa può prendere il<br />
nome di “fede”, e, precisa<strong>mente</strong>, di pura “fede razionale”: perché solo la pura ragione<br />
(tanto per il suo uso teoretico quanto per il suo uso pratico) è la fonte da cui essa deriva.<br />
Da questa “deduzione” si può ormai capire perché le scuole greche non poterono mai<br />
pervenire alla soluzione del loro problema, circa la possibilità pratica del sommo bene.<br />
Esse ponevano come suo fondamento unico, e per sé sufficiente, sempre solo la regola<br />
dell'uso che la volontà dell'uomo fa <strong>della</strong> sua libertà, credendo di non dover prendere in<br />
considerazione, a questo scopo, l'esistenza di Dio. In realtà, fecero bene a stabilire il<br />
principio <strong>della</strong> moralità per se stesso, indipendente<strong>mente</strong> da tale postulato, e unica<strong>mente</strong><br />
in base al rapporto <strong>della</strong> ragione con la volontà: facendone, così, la condizione pratica<br />
“suprema” del sommo bene. Questo non voleva dire, però, che fosse “l'intera” condizione<br />
<strong>della</strong> sua possibilità. Gli “Epicurei” avevano bensì assunto come principio supremo un<br />
principio morale assoluta<strong>mente</strong> falso - quello <strong>della</strong> felicità -, e spacciato per legge la<br />
massima <strong>della</strong> scelta arbitraria secondo l'inclinazione di ciascuno, ma, almeno, in ciò si<br />
condussero abbastanza “conseguente<strong>mente</strong>”, avvilendo il loro sommo bene in proporzione<br />
alla bassezza del loro principio, e non attendendosi nessuna felicità maggiore di quella che<br />
possa fornire la prudenza umana (nella quale rientrano anche la continenza e la<br />
moderazione dei desideri): una felicità, sappiamo, abbastanza scarsa, e che può risultare<br />
molto diversa, a seconda delle circostanze, senza contare le eccezioni che continua<strong>mente</strong><br />
dovevano essere accolte dalle loro regole, e le rendevano inadatte a servire da leggi. Gli<br />
“Stoici”, per contro, avevano scelto del tutto retta<strong>mente</strong>, nel loro principio pratico<br />
supremo, e cioè la virtù, la condizione del sommo bene; ma, credendo piena<strong>mente</strong><br />
raggiungibile in questa vita quel grado di virtù che è richiesto dalla pura legge, non<br />
soltanto estendevano la capacità morale dell'uomo chiamato “saggio” al di là dei confini<br />
<strong>della</strong> sua natura, ammettendo qualcosa che contrasta con ogni conoscenza che si ha<br />
dell'uomo; ma ancora, e soprattutto, non volevano assoluta<strong>mente</strong> riconoscere l'altro<br />
elemento che rientra nel sommo bene, e cioè la felicità, come un particolare oggetto <strong>della</strong><br />
facoltà di desiderare umana. Essi rendevano il loro “saggio” del tutto indipendente dalla<br />
natura (per ciò che riguarda la sua contentezza), nella consapevolezza dell'eccellenza <strong>della</strong><br />
sua persona; esponendolo, bensì, ma non sottoponendolo ai mali <strong>della</strong> vita (al tempo<br />
stesso che lo dipingevano come esente dal male morale). E così tralasciavano,<br />
effettiva<strong>mente</strong>, il secondo elemento del sommo bene, la personale felicità, facendolo<br />
risiedere unica<strong>mente</strong> nell'azione e nella soddisfazione per il proprio valore personale,<br />
quindi includendolo nella coscienza del carattere morale. Eppure, la voce stessa <strong>della</strong> loro<br />
natura avrebbe dovuto essere sufficiente a confutarli.<br />
La dottrina del cristianesimo (A13), anche se non la si considera ancora come dottrina<br />
religiosa, offre su questo punto un concetto del sommo bene (regno di Dio) che è il solo che<br />
risponda rigorosa<strong>mente</strong> alle esigenze <strong>della</strong> ragion pratica. La legge morale è santa<br />
(inviolabile), ed esige santità di costumi, sebbene qualunque perfezione morale a cui può<br />
giungere l'uomo sia sempre soltanto virtù, cioè intenzione conforme alla “legge”, per<br />
“rispetto” verso la legge, e, quindi, coscienza di un continuo inclinare alla trasgressione; o,<br />
quanto meno, impurità, cioè un mischiarsi di molti motivi non genuini (non morali) in ciò<br />
che spinge a obbedire alla legge; donde una valutazione di sé congiunta con l'umiltà.<br />
Dunque, rispetto alla santità, che la legge cristiana esige, alla creatura non è consentito che<br />
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