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CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />

Il “rispetto” si riferisce sempre a persone, mai a cose. Queste ultime possono suscitare in<br />

noi “inclinazione” e, quando si tratti di animali (per esempio cavalli, cani, eccetera),<br />

perfino “amore”, o anche “paura”, come il mare, un vulcano, un animale feroce: ma mai<br />

rispetto. Qualcosa che si avvicina già di più a tale sentimento è l'”ammirazione”; che, se<br />

intesa come affezione (lo stupore), può anche riferirsi a cose: ad esempio, a monti alti come<br />

il cielo, alla grandezza, quantità e lontananza dei corpi celesti, alla forza e velocità di taluni<br />

animali, eccetera. Ma tutto ciò non è rispetto. Anche un uomo può essere per me oggetto di<br />

amore, di paura, o di ammirazione, fino alla meraviglia, senza tuttavia esser punto un<br />

oggetto di rispetto. Il suo spirito brillante, il suo coraggio e la sua forza, la potenza che gli<br />

conferisce il rango che occupa tra gli altri uomini, possono ispirarmi sentimenti simili: ma,<br />

con questo, non si è giunti ancora al rispetto verso di lui. Fontenelle dice: «Davanti a un<br />

potente mi inchino, ma il mio spirito non s'inchina». Io posso aggiungere: davanti a una<br />

persona di umile condizione, in cui colgo una dirittura di carattere in una misura tale che<br />

io non ho coscienza di avere, “il mio spirito si inchina”: lo voglia io o no, e per quanto porti<br />

alta la testa per non permettergli di dimenticare la superiorità del mio rango. Perché<br />

questo? Il suo esempio mi presenta una legge che abbatte la mia superbia, se io la<br />

paragono con il mio comportamento; e il fatto stesso dimostra davanti ai miei occhi che a<br />

questa legge si può obbedire: che essa è, pertanto, “eseguibile”. E io posso anche sentirmi<br />

dotato di un pari grado di onestà: il rispetto, tuttavia, rimane; perché, essendo nell'uomo<br />

ogni bene manchevole, la legge, resa manifesta da un esempio, continua pur sempre ad<br />

abbattere il mio orgoglio; e l'uomo che scorgo davanti a me - e le cui debolezze (che egli<br />

può pur sempre avere) non mi son note come mi son note le mie, sicché egli mi appare in<br />

una luce pura - me ne offre una misura. “Il rispetto è un tributo” che non possiamo<br />

rifiutare al merito, lo vogliamo noi o no: per quanto possiamo reprimerne le manifestazioni<br />

esteriori, pure non possiamo fare a meno di sentirlo interna<strong>mente</strong>.<br />

Il rispetto è “così poco” un sentimento di “piacere”, che malvolentieri ci si assoggetta a<br />

provarlo riguardo a un uomo. Si cerca qualcosa che possa alleggerircene il peso, qualche<br />

menda che ci indennizzi dell'umiliazione che un tale esempio ci procura. Perfino i morti<br />

non sono sempre al sicuro da questa critica, special<strong>mente</strong> se il loro esempio pare<br />

inimitabile. E financo la legge morale, nella sua “solenne maestà”, è esposta a questo sforzo<br />

di difendersi dal rispetto che ispira. Non è forse questa la ragione per cui la si abbasserebbe<br />

volentieri al livello delle nostre consuete inclinazioni, facendo ogni sforzo per riportarla<br />

all'amata regola del nostro vantaggio bene inteso? Non è appunto il desiderio di liberarci<br />

dall'impressionante rispetto, che ci presenta così severa<strong>mente</strong> la nostra indegnità? Eppure<br />

in ciò vi è, d'altra parte, così poco dispiacere, che, una volta che si sia deposta la superbia, e<br />

concessa efficacia pratica al rispetto, non si è mai sazi di contemplare la maestà <strong>della</strong> legge;<br />

e l'anima si sente innalzata nella stessa misura in cui vede sovrastare a lei, e alla sua fragile<br />

natura, la legge santa. E' vero che grandi talenti, accompagnati da una proporzionata<br />

attività, possono anche suscitare rispetto, o un sentimento analogo ad esso: ed è molto<br />

opportuno concederglielo. Sicché, qui, pare che l'ammirazione faccia tutt'uno con quel<br />

sentimento. Tuttavia, se si considera più da vicino la cosa, si osserverà che rimane sempre<br />

incerto quanta parte abbia avuto nell'abilità il talento innato, e quanta la cultura di sé,<br />

grazie a una volontaria applicazione; sicché la ragione ci presenta l'abilità come<br />

presumibil<strong>mente</strong> dovuta all'applicazione, e perciò come un merito, che deprime<br />

sensibil<strong>mente</strong> la nostra superbia, e ci muove rimprovero; oppure ci fa sentire il dovere di<br />

seguir quell'esempio nella forma a noi confacente. Non è dunque semplice ammirazione,<br />

questo rispetto che dimostriamo a una tale persona (più propria<strong>mente</strong> alla legge, che il suo<br />

esempio ci rende sensibile). E ciò riceve una conferma dal fatto che la comune schiera dei<br />

dilettanti, quando crede di aver appreso da qualche fonte i lati per un altro verso cattivi del<br />

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