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CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />

Capitolo secondo:<br />

DEL CONCETTO DI UN OGGETTO <strong>DELLA</strong> <strong>RAGION</strong> PURA <strong>PRATICA</strong><br />

Per «concetto di un oggetto <strong>della</strong> ragion pura pratica» intendo la rappresentazione di un<br />

oggetto come effetto che si può ottenere per mezzo <strong>della</strong> libertà. Essere un oggetto <strong>della</strong><br />

conoscenza pratica come tale significa, dunque, solo il rapporto <strong>della</strong> volontà con l'azione,<br />

in virtù del quale sarebbe realizzato quell'oggetto o il suo contrario; e giudicare se qualcosa<br />

sia o no un oggetto <strong>della</strong> ragion pratica pura, significa soltanto accertare la possibilità o<br />

impossibilità di “volere” quella determinata azione con cui, se ne avessimo il potere (e su<br />

ciò deve decidere l'esperienza), sarebbe realizzato un certo oggetto. Se si assume l'oggetto<br />

come fondamento di determinazione <strong>della</strong> nostra facoltà di desiderare, la sua “possibilità<br />

fisica” mediante il libero uso delle nostre forze dovrebbe precedere il giudizio, si tratti di un<br />

oggetto <strong>della</strong> ragion pratica o no. Per contro, se si può considerare la legge come un motivo<br />

determinante a priori dell'azione, e questa, perciò, come determinata dalla pura ragion<br />

pratica, il giudizio, se qualcosa sia un oggetto <strong>della</strong> pura ragion pratica o no, viene ad<br />

essere del tutto indipendente dal confronto con il nostro potere fisico, e la questione è solo<br />

di sapere se ci sia lecito “volere” un'azione indirizzata all'esistenza di un oggetto, posto che<br />

ciò fosse in nostro potere: e, perciò, la “possibilità morale” dell'azione deve precedere. Qui,<br />

infatti, non l'oggetto, ma la legge <strong>della</strong> volontà è il fondamento di determinazione<br />

dell'azione medesima.<br />

I soli oggetti di una ragion pratica sono, dunque, il “bene” e il “male”. Il primo termine<br />

indica, infatti l'oggetto necessario di un desiderio, il secondo di una repulsione: ma,<br />

entrambi, secondo un principio <strong>della</strong> ragione.<br />

Se il concetto del bene non dovesse venir ricavato da una legge pratica che lo preceda, ma<br />

dovesse, anzi, servire da fondamento a quest'ultima, potrebb'essere solo il concetto di<br />

qualcosa, la cui esistenza promette piacere, determinando così la causalità del soggetto, e<br />

cioè la sua facoltà di desiderare, alla produzione dell'oggetto stesso. Ora, dato che è<br />

impossibile scorgere a priori quale rappresentazione sarà accompagnata da “piacere”, e<br />

quale, per contro, da “dispiacere”, stabilire che cosa sia immediata<strong>mente</strong> buono o cattivo<br />

sarebbe un compito che verrebbe a spettare, senz'altro, all'esperienza. La proprietà del<br />

soggetto, in relazione alla quale soltanto si può costituire tale esperienza, è il sentimento<br />

del piacere e del dolore, come recettività appartenente al senso interno; sicché il concetto<br />

di ciò che è immediata<strong>mente</strong> buono si ridurrebbe inevitabil<strong>mente</strong> al concetto di ciò che è<br />

immediata<strong>mente</strong> connesso con una sensazione di “diletto”, e quello del cattivo in senso<br />

assoluto, a ciò che suscita immediata<strong>mente</strong> “dolore”. Ma poiché ciò contrasta già con l'uso<br />

<strong>della</strong> stessa lingua, che distingue il “buono” dal “piacevole”, e il “cattivo” dallo “spiacevole”,<br />

esigendo che del buono o del cattivo si giudichi sempre con la ragione, quindi mediante<br />

concetti che si possono comunicare universal<strong>mente</strong>, e non con la semplice sensibilità, che<br />

si limita ai singoli soggetti e alla loro recettività - mentre con nessuna rappresentazione<br />

pura e semplice di un oggetto si può collegare immediata<strong>mente</strong> a priori un piacere o un<br />

dispiacere -, il filosofo che si reputasse costretto a porre a fondamento del suo giudizio<br />

pratico un senso di piacere, dovrebbe chiamar “buono” ciò che costituisce un “mezzo” per<br />

raggiungere il piacevole, e “cattivo” ciò che è “causa” di sensazioni sgradevoli e di dolore.<br />

Infatti, il giudizio sul rapporto tra mezzo e fine appartiene senz'altro alla ragione. Ma,<br />

sebbene soltanto la ragione sia capace di scorgere la connessione dei mezzi con i loro scopi<br />

(tanto che si potrebbe anche definire la volontà come la facoltà degli scopi, in quanto essi<br />

sono sempre i fondamenti che determinano la facoltà di desiderare secondo princìpi), pure<br />

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