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CRITICA DELLA RAGION PRATICA - Sentieri della mente

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Immanuel Kant – Critica <strong>della</strong> ragion pratica<br />

moralità con la felicità secondo una legge universale, ma solo per un malinteso: perché si<br />

considerava il rapporto tra i fenomeni come un rapporto delle cose in se stesse con tali<br />

fenomeni.<br />

Considerato che noi ci vediamo costretti a cercare la possibilità del sommo bene - di questo<br />

scopo, che la ragione assegna a tutti gli esseri ragionevoli come meta dei loro desideri<br />

morali - in tale lontananza, e cioè nel rapporto con un mondo intelligibile, non può non<br />

meravigliare che i filosofi, tanto delle antiche scuole quanto delle moderne, abbiano potuto<br />

trovare una proporzione soddisfacente <strong>della</strong> virtù con la felicità già “in questa vita” (nel<br />

mondo sensibile), o abbiano potuto convincersi di esserne consapevoli. Infatti, tanto<br />

“Epicuro” quanto gli Stoici innalzarono la felicità, che nasce dalla coscienza <strong>della</strong> virtù, al<br />

di sopra di tutto nella vita; e il primo, nei suoi precetti pratici, non era intenzionato così<br />

bassa<strong>mente</strong> come si potrebbe concludere dai princìpi <strong>della</strong> sua teoria - utilizzati da lui per<br />

spiegare, ma non per agire - o come li hanno interpretati molti, sviati dalla espressione<br />

«piacere» in luogo di «contentezza»: al contrario, tra i modi di godere la gioia più intima<br />

egli includeva l'esercizio disinteressato del bene, e nel suo piano di vita piacevole (col che<br />

intendeva una costante letizia d'animo) rientravano la temperanza e la moderazione delle<br />

inclinazioni, quale può pretenderla il moralista più severo. In ciò egli si scostava<br />

sostanzial<strong>mente</strong> dagli Stoici solo nel porre in un siffatto piacere quel motivo determinante<br />

che gli Stoici, e con ragione, negavano. Da un lato, infatti, il virtuoso Epicuro, al pari di<br />

molte persone moral<strong>mente</strong> bene intenzionate, ma che non hanno approfondito abbastanza<br />

i loro princìpi, cadeva nell'errore di presupporre già l'”intenzione” virtuosa nei soggetti, a<br />

cui pretendeva di indicare per primo il movente alla virtù (e, effettiva<strong>mente</strong>, la persona per<br />

bene non può sentirsi felice se non è cosciente, anzitutto, <strong>della</strong> propria onestà: perché<br />

avendo un tale animo, i rimproveri che il suo stesso carattere lo costringerebbe a muoversi<br />

quando trasgredisse la legge, e la sua condanna morale di sé, lo priverebbero del tutto di<br />

quel piacere che altrimenti potrebbe ritrarre dalla sua condizione). Se non che la questione<br />

è: da che cosa è resa possibile una siffatta intenzione e tendenza a considerare in questo<br />

modo il valore <strong>della</strong> propria esistenza, posto che, prima di essa, non s'incontrerebbe nel<br />

soggetto nessuna sensibilità per un valore morale di qualsiasi genere? Senza dubbio,<br />

l'uomo, quando sia virtuoso, non prenderà piacere alla vita se non sarà cosciente, in ogni<br />

sua azione, <strong>della</strong> rettitudine del proprio comportamento, per quanto favorevole gli sia la<br />

fortuna rispetto allo stato fisico <strong>della</strong> vita stessa; ma, per renderlo virtuoso - prima ancora,<br />

perciò, che egli ponga così in alto il valore morale <strong>della</strong> sua esistenza -, è possibile<br />

decantargli la tranquillità d'animo che dovrà scaturire dalla coscienza di una rettitudine,<br />

per la quale egli non ha sensibilità alcuna?<br />

D'altro canto, però, qui si trova sempre il fondamento di un errore di surrezione ("vitium<br />

subreptionis"), simile ad una illusione ottica, nell'autocoscienza di ciò che si fa, a differenza<br />

di ciò che “si sente”: illusione che anche la persona più sperimentata non può evitare del<br />

tutto. L'intenzione morale è necessaria<strong>mente</strong> legata a una coscienza <strong>della</strong> determinazione<br />

<strong>della</strong> volontà “diretta<strong>mente</strong> da parte <strong>della</strong> legge”. Ora, la coscienza di una determinazione<br />

<strong>della</strong> facoltà di desiderare fonda sempre un certo piacere per l'azione che ne vien prodotta:<br />

ma questo piacere, questo compiacimento di sé, non è la ragione che determina<br />

l'operazione; al contrario, solo la determinazione <strong>della</strong> volontà immediata<strong>mente</strong> da parte<br />

<strong>della</strong> pura ragione è il fondamento del senso di piacere, ed essa rimane una determinazione<br />

pratica pura, non estetica, <strong>della</strong> facoltà di desiderare. Ora, poiché tale determinazione<br />

produce interna<strong>mente</strong> appunto lo stesso effetto di stimolo dell'attività che produrrebbe un<br />

senso di piacevolezza che ci si attenda dall'azione desiderata, facil<strong>mente</strong> scambiamo ciò<br />

che noi stessi operiamo per qualcosa che sentiamo solo passiva<strong>mente</strong>, e prendiamo il<br />

movente morale per un impulso sensibile analoga<strong>mente</strong> a ciò che accade nella cosiddetta<br />

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