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Terzo concorso Il Volo di Pègaso - Istituto Superiore di Sanità

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Evidentemente il silenzio era dentro <strong>di</strong> me: silenzio e lacrime per il mio piccolo bambino che con<br />

quel tubo in gola cercava <strong>di</strong>speratamente <strong>di</strong> guadagnarsi un posto in questo mondo.<br />

Le mie mani scorrevano su quei quarantatre centimetri <strong>di</strong> vita che non si muovevano,<br />

soff ermandosi sulla testa, cercavano <strong>di</strong> trasmetterti tutti quei baci che avrei voluto darti se non ci<br />

fosse stato quel maledetto plexiglass a separarci.<br />

Le domande della dottoressa giravano come coriandoli impazziti nella mia testa: “Problemi<br />

car<strong>di</strong>aci in famiglia? Malattie genetiche? Morti premature?”<br />

Cosa voleva quella donna da noi? Con quale <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto si era intromessa nella simbiosi che<br />

nemmeno il parto aveva potuto sciogliere?<br />

“Sparisci” avrei voluto rispondere “lasciami sola con il mio bambino!”<br />

Sola… parola grossa… nemmeno la solitu<strong>di</strong>ne ci è stata concessa, nemmeno la possibilità <strong>di</strong><br />

piangere con <strong>di</strong>gnità senza essere osservati, senza dover creare imbarazzo in chi era costretto a<br />

rimanere intorno a noi.<br />

Perché nessuno si avvicinava? Cosa li spaventava? La nostra unione così forte nonostante la<br />

termoculla che ci separava? C’era forse troppa energia in quei due metri quadrati da noi occupati,<br />

l’energia scaturita da due anime innamorate che sanno, senza alcun dubbio, <strong>di</strong> avere poco tempo<br />

per conoscersi e troppe cose da <strong>di</strong>rsi.<br />

O forse era il mio dolore a fare paura? Perché si sa, il dolore non è facile da aff rontare; non è da<br />

tutti saper entrare nel modo giusto in un territorio così fragile e personale.<br />

Non sono superstiziosa, credo troppo in Dio per esserlo, ma sono sicura che molte persone<br />

provano una sorta <strong>di</strong> sollievo se accadono <strong>di</strong>sgrazie agli altri perché si sentono al sicuro: “se è già<br />

successo a loro”, pensano, “per un po’ possiamo stare tranquilli”.<br />

Così si defi lano o cambiano strada quando ti vedono. Sanno benissimo che se ti raccontassero<br />

frottole, la tua anima all’erta coglierebbe subito il falso pietismo.<br />

È <strong>di</strong>sarmante il gelo che può creare una mamma che soff re e io, per non rompere quello strano<br />

equilibrio, abbassavo la testa e non salutavo così da non dovere mettere in <strong>di</strong>ffi coltà chi si<br />

imbatteva in quei venti metri che mi portavano fuori dalla terapia intensiva, lontano da te.<br />

Mentre io e il tuo papà cercavamo solo un modo per comunicare con te, sperando ingenuamente<br />

che il nostro amore bastasse a tenerti qui, i me<strong>di</strong>ci ti torturavano con esami ed analisi. Da un paio<br />

<strong>di</strong> mesi parole strane come “sindrome” e “Noonan” erano entrate a far parte del nostro usuale<br />

vocabolario, ma solo la tua nascita avrebbe potuto chiarire ogni dubbio.<br />

Così, in attesa <strong>di</strong> riscontri eff ettivi i me<strong>di</strong>ci osservavano il tuo “cranio sproporzionato rispetto al<br />

volto”, il tuo “scroto <strong>di</strong>sabitato”, la tua “facies <strong>di</strong>smorfi e”, i tuoi “solchi palmari unici” e noi per<br />

contro ti scattavamo fotografi e per essere sicuri che chiunque potesse constatare che, in realtà,<br />

quello che loro descrivevano come un caso clinico, era un bambino bellissimo.<br />

Quando il tuo cuore ha smesso <strong>di</strong> lottare quel 30 giugno, fuori c’era un gran bel sole ed io, per<br />

uno scherzo del destino, indossavo gli stessi abiti che avevo il giorno in cui ti ho partorito.<br />

Quando te ne sei andato quel 30 giugno, ho potuto fi nalmente stringerti e baciarti come una<br />

vera mamma deve fare.<br />

È stato in quel momento che il silenzio ha raggiunto la sua forma perfetta: tutti tacevano, per<br />

non <strong>di</strong>sturbare il volo del mio giovane angelo, per onorare quel piccolo essere umano che aveva<br />

già terminato il suo viaggio e perché, veramente, nessuna bocca avrebbe potuto proferire giusta<br />

parola.<br />

Quando sono arrivati i risultati delle analisi, tu ci avevi già lasciato da due mesi” e, secondo il<br />

me<strong>di</strong>co che ci ha telefonato, l’esito ha confermato i sospetti del “caso clinico”.<br />

Caso clinico? Per noi eri tu, semplicemente Valerio, il nostro piccolo Angelo Noonan.<br />

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