Terzo concorso Il Volo di Pègaso - Istituto Superiore di Sanità
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16<br />
contro la malattia, <strong>di</strong> lotta con la vita per la vita. Scrutavo ogni suo respiro per paura <strong>di</strong> perdere<br />
anche quello. Per u<strong>di</strong>rlo ci voleva silenzio. Iniziai così a scacciare tutti quei molesti, ampollosi<br />
termini me<strong>di</strong>ci che, <strong>di</strong>spettosi, mi ronzavano nella testa togliendomi la concentrazione. Mio figlio<br />
non era atassia, afasia, sindrome <strong>di</strong> Leigh... Io non ero una madre sfortunata, solo apprensiva.<br />
Come cambiano le visioni, il modo <strong>di</strong> vedere le cose. Tenevo stretto al cuore il mio bimbo,<br />
aspettando <strong>di</strong> scivolare con lui in una nuova, apparente tranquillità, una pausa tra due crisi. A<br />
quel tempo ero un marinaio in mezzo alla tempesta; ogni volta che chiudevo una falla nello scafo<br />
della nave, altre se ne aprivano. Erano varchi che per ampiezza assomigliavano ad un bivio, il<br />
<strong>di</strong>vidersi <strong>di</strong> due strade. Solo tappando gli squarci la vita avrebbe potuto continuare a galleggiare.<br />
<strong>Il</strong> rumore della frenesia, il rombare del traffico, le parole frettolose, le frasi <strong>di</strong> circostanza, erano<br />
parte <strong>di</strong> quella tempesta; mi scorrevano attorno insapori, incolori, incapaci <strong>di</strong> inzupparmi. I<br />
gemiti <strong>di</strong> Peter e le mie urla soffocate rimanevano incastrate in questa trappola rimbalzando sulle<br />
pareti che, come casse <strong>di</strong> risonanza, vibravano in una continua alternanza tra paura, speranza,<br />
dolore, amore. Dovevo star calma per non fargli sentire il mio nervosismo. Lui però fiutava l’aria<br />
e capiva sempre <strong>di</strong> cosa era satura.<br />
La casa <strong>di</strong>ventava allora l’isola che non c’è e lui un piccolo Peter Pan, un bambino speciale.<br />
Guarda avanti, domani starà meglio, <strong>di</strong>cevano le bugie. Uno <strong>di</strong> quei domani, però, mi ha portato<br />
alla fine <strong>di</strong> ogni speranza. Ora devo <strong>di</strong>rgli ad<strong>di</strong>o. Se avessi saputo, non avrei cercato il domani<br />
ma avrei tentato <strong>di</strong> vivere in un eterno presente; avrei rotto gli orologi, fermato il moto delle<br />
lancette, spaccato i bronzei rintocchi delle campane accontentandomi del più duro dei presenti.<br />
Non desidero più la ricetta per non soffrire, ma quella per far tornare il tempo in<strong>di</strong>etro per<br />
poter <strong>di</strong> nuovo stringere a me la felicità. Peter è volato via. Era una libellula, un esserino dalle ali<br />
impalpabili ed eteree. <strong>Il</strong> suo volo, troppo rapido, si è arrestato all’improvviso. Per un istante mi<br />
sono illusa che potesse invertire la rotta, tornare in<strong>di</strong>etro per posarsi <strong>di</strong> nuovo tra le mie braccia.<br />
Ma non è possibile: come un insetto forte ed aggraziato, ha vissuto il tempo breve <strong>di</strong> un canto.<br />
Posso perciò solo conquistare gli ultimi silenzi, vegliare il suo viaggio conclusivo, osservare quel<br />
suo essere foglia caduca che si porta via tutto il bello, i colori dell’autunno.<br />
Respiro la fatica, galleggio nel vento lasciandomi trasportare come peso morto dalla corrente fino<br />
a quei vuoti, a quei vortici da cui risalire è così <strong>di</strong>fficile. La verità è tutta in quel suono cupo <strong>di</strong><br />
campana, mescolato alle parole incapaci <strong>di</strong> confortare. È <strong>di</strong> fronte alla morte che mi rendo conto<br />
<strong>di</strong> aver cresciuto il mio bimbo pensando al tempo non ancora con<strong>di</strong>viso senza capire che erano<br />
gli istanti presenti l’unica vera ricchezza. Non che gli abbia sciupati o persi, questo no perché<br />
nonostante tutto, l’aria è sempre stata piena <strong>di</strong> lui, della sua fragile forza. Ed ora che si è lasciato<br />
andare, non ho altro da ricordare che il tempo rotto della sua esistenza. Non ascolto le mani che<br />
mi sfiorano, gli sguar<strong>di</strong> che mi circuiscono, le parole che tentano <strong>di</strong> penetrare: questo è l’ultimo<br />
nostro momento, deve profumare solo dell’ultima favola che ho inventato per lui. Delle fiabe a<br />
Peter piacevano le storie, a me il lieto fine. Volevo che sapesse sempre guardare al futuro perché<br />
sperare significa avere, essere un corpo. Lui era tutto per me.<br />
Lo sa il cuore che ha perso il suo più importante interlocutore. Lo sa l’anima accecata dall’amore<br />
perduto. Lo sanno le mani che, goffe, si sono lasciate scivolare tra le <strong>di</strong>ta la sabbia del suo tempo,<br />
annullando 12 anni <strong>di</strong> dure battaglie, <strong>di</strong> continue rappresaglie.<br />
Speravo in un armistizio ma a sventolare oggi è la ban<strong>di</strong>era bianca della resa. Ma bianco è anche<br />
il colore della sua pace. A me, prima mamma sfortunata ed ora grembo vuoto, non resta che il<br />
ricordo fatto <strong>di</strong> quei giorni sfioriti. Non ho più i pugni chiusi in lotte per assicurare a lui, malato<br />
<strong>di</strong> una malattia rara, le giuste attenzioni. Tutti i farmaci non in<strong>di</strong>viduati in tempo mi hanno reso<br />
inutile, orfana del mio bimbo. Presto, però, fascerò strette le ferite dell’anima ed andrò in giro a<br />
mostrarle a quel mondo che non ha saputo né capire né ascoltare; le porgerò come stimmate <strong>di</strong>