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Inferno - Letteratura Italiana

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cancelliere parole con cui respinge l’accusa di aver<br />

tradito l’imperatore. Dante poi, come in altri casi,<br />

chiede al dannato di rispondere a una domanda: come<br />

le anime s’incarcerano dentro i tronchi. Il dannato<br />

risponde. Il dialogo con l’anima del suicida è bruscamente<br />

interrotto dall’arrivo di altri due dannati,<br />

Lano da Siena e Giacomo da Sant’Andrea. In tal modo<br />

il poeta si licenzia da Pier delle Vigne e passa alla<br />

parte finale del canto. Egli assiste impassibile alla loro<br />

sorte: Lano, preso dalla disperazione, invoca la seconda<br />

morte, cioè l’annientamento totale; Giacomo<br />

invece lancia una battuta malevola verso il compagno<br />

in fuga, quindi si lascia cadere senza fiato su un cespuglio,<br />

dove le cagne lo raggiungono e lo sbranano.<br />

Il canto termina pianamente con un altro suicida, che<br />

si lamenta per le foglie strappate. Chiede soltanto ai<br />

due poeti di raccoglierle ai piedi del suo tronco. Dice<br />

di essere di Firenze, la città che sarà sempre dominata<br />

dal primo patrono, Marte, il dio della guerra. Quindi<br />

condensa in poche parole la sua storia: si è impiccato<br />

nelle sue case.<br />

1.1. Il poeta considera sistematicamente tutti i casi<br />

possibili: violenza contro se stessi, contro gli altri<br />

uomini, contro le cose. A queste forme di violenza<br />

poco dopo aggiunge anche quella contro Dio (i bestemmiatori).<br />

Egli però non v’include meccanicamente<br />

le anime, perché la realtà è complessa e la legge<br />

va applicata con intelligenza. Inoltre in questo<br />

come in altri casi vi sono eccezioni: M. Porcio Catone<br />

di Utica è morto suicida. Il suo suicidio però non è<br />

dettato da motivi egoistici, ma dal suo amore per la<br />

libertà, minacciata da C. Giulio Cesare. Perciò il poeta<br />

lo mette a guardia del purgatorio (Pg I, 28-39).<br />

2. Dante per tutto il canto (vv. 4-9, 30-39, 55-78) simula<br />

il linguaggio forbito e ricercato di Pier delle<br />

Vigne, poeta e uomo di corte: le antitesi «Non fronde<br />

verdi, ma di color fosco...» (vv. 4-9); le ripetizioni e<br />

le allitterazioni «Io credei ch’ei credesse ch’io credessi»<br />

(v. 25); le litoti “non posso tacere» (v. 56), «a<br />

voi non gravi» (v. 58), “non torse li occhi putti» (v.<br />

65), le allitterazioni con chiasmo «infiammò contra<br />

me li animi tutti; E li [animi] ‘nfiammati infiammar»<br />

(v. 67 sgg.), le allitterazioni con antitesi «disdegno» e<br />

«sdegno» (v. 70 sgg.), «fece me ingiusto contra me<br />

giusto» (v. 71 sg.); le parole accoppiate come «li<br />

sonni e’ polsi» (v. 63), le metafore adescare (catturare<br />

con l’esca) e inveschiare (catturare con il vischio)<br />

(vv. 55 e 57) e poi serrare e disserrare (v. 60), la<br />

personificazione dell’invidia-meretrice, vista come<br />

una donna (v. 64) ecc.<br />

3. Pier delle Vigne si suicida. È consapevole di aver<br />

commesso un atto ingiusto contro se stesso. Per di<br />

più non si ritiene colpevole delle accuse mosse<br />

dall’invidia degli altri cortigiani. Dante e la Chiesa<br />

condannano all’inferno il suicida perché l’individuo<br />

non è padrone della sua vita. Egli l’ha ricevuta da<br />

Dio e deve rispettarla. Egli ha commesso violenza<br />

contro se stesso. Poteva commettere violenza anche<br />

contro gli altri uomini (omicidi) o contro le cose<br />

(scialacquatori). Anche costoro sono condannati nello<br />

stesso cerchio e nello stesso girone. Tutte queste azioni<br />

sono considerate peccati, perché danneggiano la<br />

Divina commedia. <strong>Inferno</strong>, a cura di P. Genesini 52<br />

società. L’individuo è una risorsa per la società, cioè<br />

per gli altri individui. Uccidendosi, sottrae alla società<br />

questa risorsa. E le società tradizionali erano<br />

povere e perciò estremamente vulnerabili. Ciò costringeva<br />

a combattere lo spreco o il cattivo uso delle<br />

risorse. Di qui la condanna sia agli scialacquatori,<br />

che le sprecano, sia agli avari, che non le usano. Per<br />

Dante, per Aristotele e per Tommaso vale la regola<br />

del giusto mezzo.<br />

3.1. Il poeta siciliano dice ingiusta l’accusa che gli<br />

viene mossa dai cortigiani e che lo porta al suicidio<br />

(vv. 73-78) e chiede al poeta di difendere la sua fama,<br />

quando sarà tornato sulla terra (vv. 76-78). La<br />

causa del suicidio è l’invidia degli altri cortigiani. Il<br />

dannato la personifica e la indica indirettamente come<br />

la meretrice che non distoglie mai gli occhi disonesti<br />

dalla corte imperiale, che rovina gli uomini e<br />

che è un vizio speciale delle corti. Anche Romeo di<br />

Villanova subisce la stessa sorte: i baroni di Provenza<br />

lo hanno calunniato presso Raimondo Berengario.<br />

Egli mostra di avere operato onestamente, ma poi se<br />

ne va solo e mendico. I cortigiani però sono puniti<br />

ed egli impreziosisce con la sua presenza il cielo di<br />

Mercurio (Pd VI, 127-142). Neanche Dante, che è<br />

un cittadino, si trova a suo agio nelle corti, dove è<br />

costretto a rifugiarsi: proverà come sa di sale il pane<br />

altrui e com’è duro lo scendere e il salire per le altrui<br />

scale (Pd XVII, 58-60).<br />

4. Il dialogo tra i due poeti e Pier delle Vigne è interrotto<br />

all’improvviso dall’arrivo dei due dannati inseguiti<br />

dalle «nere cagne». Essi sono Lano da Siena e<br />

Giacomo da Sant’Andrea, ambedue scialacquatori.<br />

Gli avari, puniti più sopra, erano troppo attaccati alle<br />

ricchezze; i prodighi, loro compagni di pena, lo erano<br />

troppo poco (If 25-60). Gli scialacquatori invece<br />

hanno sperperato oltre ogni limite le loro ricchezze.<br />

Ed ora, per la legge del contrappasso, sono puniti in<br />

questo modo: sono nudi e sono inseguiti da nere cagne.<br />

Si sono spogliati, hanno fatto violenza al loro<br />

patrimonio, ed ora essi stessi subiscono violenza e<br />

sono lacerati. Le cagne sono indifferentemente il<br />

simbolo dei rimorsi e dei creditori.<br />

4.1. Lano da Siena si augura l’annientamento totale,<br />

per sfuggire alle lacerazioni inflittegli dalle nere cagne:<br />

«O morte, accorri, accorri in mio aiuto!». Giacomo<br />

da Sant’Andrea corre al suo fianco, ma sente<br />

che le forze gli vengono meno. Prima di lasciarsi cadere<br />

sul cespuglio ed essere sbranato, trova però la<br />

forza di fare una battuta sarcastica e velenosa sul<br />

compagno di pena: «O Lano, non correvi così velocemente<br />

nello scontro a Pieve del Toppo, quando gli<br />

aretini ti raggiunsero mentre cercavi di scappare!». Il<br />

dannato è malevolo: Lano aveva cercato invece la<br />

morte in battaglia, per non ritornare alla sua vita misera.<br />

Ma Giacomo, come altri dannati, è chiuso nel<br />

suo egoismo come sulla terra, e prova una grandissima<br />

soddisfazione nel vedere le pene degli altri<br />

dannati.<br />

4.2. La comparsa dei due scialacquatori è un’imprevista<br />

e improvvisa esplosione di violenza, che si allarga<br />

a tutto il canto. Anche il Veltro, che uccide la<br />

lupa «con doglia», è caratterizzato dalla violenza (If

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