Inferno - Letteratura Italiana
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e disser: “Padre, assai ci fia men doglia<br />
se tu mangi di noi: tu ne vestisti<br />
queste misere carni, e tu le spoglia”.<br />
Queta’mi allor per non farli più tristi;<br />
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;<br />
ahi dura terra, perché non t’apristi?<br />
Poscia che fummo al quarto dì venuti,<br />
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,<br />
dicendo: “Padre mio, ché non mi aiuti?”.<br />
Quivi morì; e come tu mi vedi,<br />
vid’io cascar li tre ad uno ad uno<br />
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,<br />
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,<br />
e due dì li chiamai, poi che fur morti.<br />
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.<br />
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti<br />
riprese ‘l teschio misero co’denti,<br />
che furo a l’osso, come d’un can, forti.<br />
Ahi Pisa, vituperio de le genti<br />
del bel paese là dove ‘l sì suona,<br />
poi che i vicini a te punir son lenti,<br />
muovasi la Capraia e la Gorgona,<br />
e faccian siepe ad Arno in su la foce,<br />
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!<br />
Ché se ‘l conte Ugolino aveva voce<br />
d’aver tradita te de le castella,<br />
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.<br />
Innocenti facea l’età novella,<br />
novella Tebe, Uguiccione e ‘l Brigata<br />
e li altri due che ‘l canto suso appella.<br />
Noi passammo oltre, là ‘ve la gelata<br />
ruvidamente un’altra gente fascia,<br />
non volta in giù, ma tutta riversata.<br />
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,<br />
e ‘l duol che truova in su li occhi rintoppo,<br />
si volge in entro a far crescer l’ambascia;<br />
ché le lagrime prime fanno groppo,<br />
e sì come visiere di cristallo,<br />
riempion sotto ‘l ciglio tutto il coppo.<br />
E avvegna che, sì come d’un callo,<br />
per la freddura ciascun sentimento<br />
cessato avesse del mio viso stallo,<br />
già mi parea sentire alquanto vento:<br />
per ch’io: “Maestro mio, questo chi move?<br />
non è qua giù ogne vapore spento?”.<br />
Ond’elli a me: “Avaccio sarai dove<br />
di ciò ti farà l’occhio la risposta,<br />
veggendo la cagion che ‘l fiato piove”.<br />
E un de’ tristi de la fredda crosta<br />
gridò a noi: “O anime crudeli,<br />
tanto che data v’è l’ultima posta,<br />
levatemi dal viso i duri veli,<br />
sì ch’io sfoghi ‘l duol che ‘l cor m’impregna,<br />
un poco, pria che ‘l pianto si raggeli”.<br />
Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,<br />
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,<br />
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna”.<br />
Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo;<br />
i’ son quel da le frutta del mal orto,<br />
che qui riprendo dattero per figo”.<br />
Divina commedia. <strong>Inferno</strong>, a cura di P. Genesini 94<br />
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61. e dissero: “O padre, proveremo meno dolore, se<br />
ti cibi di noi: tu ci hai vestiti con queste misere carni,<br />
tu ora le puoi riprendere”. 64. Allora mi quietai, per<br />
non renderli più tristi. Quel giorno e il giorno successivo<br />
restammo tutti muti. Ahi, o terra senza cuore,<br />
perché non ti apristi [e non ci hai inghiottiti]? 67.<br />
Dopo che giungemmo al quarto giorno, Gaddo mi si<br />
gettò disteso ai piedi, dicendo: “O padre mio, perché<br />
non mi aiuti?”. 70. Poi morì. E, come tu vedi me,<br />
così io vidi cadere gli altri ad uno ad uno tra il quinto<br />
e il sesto giorno. 73. Ormai cieco, io cominciai a<br />
brancolare sopra ciascuno e per due giorni li chiamai,<br />
dopo che furon morti. Alla fine più che il dolore<br />
poté il digiuno». 76. Quand’ebbe finito di parlare,<br />
con gli occhi biechi riprese l’infelice teschio con i<br />
denti, che sull’osso furono forti come quelli d’un cane.<br />
79. Ahi, o Pisa, sei l’infamia delle genti del bel<br />
paese dove il sì suona (=l’Italia). Poiché i vicini son<br />
lenti a punirti, 82. si muovano le isole di Capraia e di<br />
Gorgóna e facciano un argine alla foce dell’Arno,<br />
così che anneghino tutti i tuoi abitanti! 85. Anche se<br />
il conte Ugolino aveva fama d’aver consegnato alcuni<br />
tuoi castelli, non dovevi sottoporre i figli ad un<br />
supplizio così crudele. 88. O nuova Tebe!, la giovane<br />
età rendeva innocenti Uguccione e Brigata e gli altri<br />
due già nominati. 91. Noi passammo oltre (=nella<br />
Tolomea), là dove la [crosta] gelata avvolge fra i<br />
tormenti altri dannati, che hanno la faccia non rivolta<br />
in giù bensì rivolta in su. 94. In quel luogo lo stesso<br />
pianto non permette di piangere e il dolore, che trova<br />
un ostacolo sugli occhi, ritorna indietro ed accresce il<br />
tormento, 97. perché le lacrime [che si sono congelate<br />
per] prime formano un nodo di ghiaccio e, come<br />
una visiera di cristallo, riempiono tutta l’occhiaia che<br />
sta sotto il ciglio. 100. Anche se, come ad un callo, il<br />
freddo aveva tolto ogni sensibilità al mio viso, 103.<br />
mi pareva già di sentire alquanto vento. Perciò dissi:<br />
«O maestro mio, chi provoca questo vento? In questo<br />
luogo [senza sole] non cessa ogni movimento<br />
dell’aria?». 106. Ed egli a me: «Presto sarai dove<br />
l’occhio darà risposta alla tua domanda e vedrai la<br />
causa che in alto produce questo vento». 109. Allora<br />
uno dei tristi della crosta ghiacciata gridò a noi: «O<br />
anime tanto crudeli da meritare la zona più profonda<br />
dell’inferno, 112. levàtemi dagli occhi le incrostazioni<br />
di ghiaccio così che possa sfogare un po’ il dolore<br />
che mi riempie il cuore, prima che il pianto si<br />
congeli nuovamente». 115. Io a lui: «Se vuoi che ti<br />
aiuti, dimmi chi sei. Se non ti libero gli occhi, mi àuguro<br />
di andare nel fondo della ghiacciaia!». 118. Allora<br />
rispose: «Io son frate Alberigo dei Manfredi,<br />
son quello della frutta dell’orto del male. Qui raccolgo<br />
datteri per fichi».