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Inferno - Letteratura Italiana

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6. La domanda però sùbito dopo si trasforma in una<br />

riflessione più vasta (e di conseguenza più drammatica)<br />

sul significato della paternità, sull’importanza<br />

dei figli come mezzo per perpetuare se stessi e sulla<br />

ferocia dei tempi. Anche in questo caso Dante, che<br />

non svela fino in fondo il dramma del conte, è il<br />

deus ex machina di tutta l’operazione, che coinvolge<br />

ed «incastra» il lettore. Aveva usato soluzioni narrative<br />

simili con «colui che fece per viltade il gran rifiuto»<br />

(If III, 59-60), forse papa Celestino V; e<br />

l’anonimo suicida fiorentino (If XIII, 139-151). Ma<br />

aveva lasciato indeterminato anche il Veltro (If I,<br />

100-111) ed il «Cinquecento dieci e cinque», cioè il<br />

DXV, anagrammato in DUX (Pg XXXIII, 43). Il caso<br />

più vicino all’episodio del conte Ugolino è costituito<br />

da Piccarda Donati, la quale allude soltanto alle<br />

sofferenze che ha provato, dopo che il fratello Corso<br />

l’ha strappata dal convento, per darla in sposa ad un<br />

compagno di partito: «Iddio si sa qual poi mia vita<br />

fusi» (Pd III, 108).<br />

7. Con la figura del conte Ugolino Dante sperimenta<br />

un’altra variazione sul tema della figura paterna. Peraltro<br />

il canto può essere capito soltanto rapportandolo<br />

alla cultura e alla vita del sec. XIII: a) l’individuo<br />

è in costante pericolo di morte e può pensare di<br />

sopravvivere soltanto mettendo al mondo dei figli,<br />

quindi soltanto nella sua discendenza; b) l’individuo<br />

non ha vita propria, ma esiste soltanto perché esiste<br />

la famiglia che lo ha generato; c) Dante che per molti<br />

anni vive lontano dai figli (e dalla moglie, ma la moglie<br />

non sembra importante) sente con un’intensità<br />

particolare il dramma ed il valore di essere padri.<br />

8. I critici che si sono chiesti se il conte ha o non ha<br />

mangiato i figli si pongono una domanda superficiale<br />

e dimostrano di non avere capito né questo passo<br />

né l’opera dantesca. In genere propendono per<br />

l’ipotesi che il conte non abbia divorato i figli. Anzi<br />

concludono con orgoglio e compiaciuti della propria<br />

acribia che non ci sono documenti a sostegno della<br />

tesi, come se tutti i fatti fossero certificati da altrettanti<br />

documenti – un’ipotesi assolutamente demenziale<br />

–; e non servisse la ragione e il buon senso per<br />

formulare le domande e cercare le risposte. Essi<br />

scambiano Dante per uno storico o un cronista e dimenticano<br />

costantemente che è poeta e che perciò<br />

deve seguire le regole della poesia e della narrativa<br />

(in questo caso non dire, far immaginare il lettore è<br />

la soluzione più efficace). Dimenticano anche tutta la<br />

problematica sulla paternità, che pervade la Divina<br />

commedia, da Cavalcante de’ Cavalcanti (If X, 52-<br />

72) al Padre celeste (Pg XI, 1-24).<br />

8.1. Per di più, anche se si dimostrasse con assoluta<br />

certezza la tesi dell’antropofagia (e della conseguente<br />

necrofagia) o la tesi opposta, il testo dantesco non ci<br />

guadagnerebbe né ci perderebbe niente: il dramma<br />

del conte continuerebbe a colpire l’animo del lettore.<br />

Lo stesso vale per molti altri casi: l’identificazione<br />

assolutamente certa del Veltro (If I, 100-111), di<br />

«colui che fece per viltade il gran rifiuto» (If III, 59-<br />

60), dell’anonimo fiorentino (If XIII, 130-152) o del<br />

«Cinquecento dieci e cinque», anagrammato in DUX<br />

(Pg XXXIII, 43). Dante non chiarisce il dramma del<br />

Divina commedia. <strong>Inferno</strong>, a cura di P. Genesini 97<br />

conte, perché ciò è superfluo e banale (si passerebbe<br />

dalla tragedia al resoconto, alla cronaca minuta) e<br />

perché soltanto così esso s’imprime in modo indelebile<br />

per sempre nella memoria del lettore.<br />

8.2. Il rispetto per il documento non va assolutizzato<br />

né dogmatizzato: in certi casi esso serve ed anzi è<br />

necessario; in altri casi non serve ed anzi è controproducente.<br />

Oltre a questo il documento non è stato<br />

scritto per le nostre esigenze, per le nostre domande,<br />

perciò è normalmente di difficile interpretazione. Ad<br />

esempio se una società non conosceva i virus, lo storico<br />

o il filologo non possono fare domande corrette<br />

né ricevere risposte soddisfacenti sulla salute della<br />

popolazione. E sull’argomento non trova nessun documento<br />

o trova documenti che parlano d’altro (come<br />

il numero di decessi nei registri parrocchiali)...<br />

Questo atteggiamento non è neutrale, come gli stessi<br />

filologi ingenuamente ritengono. Proviene da una<br />

precisa filosofia e metodologia: il Positivismo e il<br />

culto feticistico dei fatti. Curiosamente esso si sviluppa<br />

e si conclude nell’Ottocento (1820-1890), ma<br />

a tutt’oggi continua ad imperversare in campo linguistico<br />

e filologico. La sua lotta contro la metafisica e<br />

a favore della scienza è stata meritevole, ma poi si è<br />

trasformata nel dogma dei fatti, nel dogma dei documenti<br />

e nel dogma della scienza. Esso è in assoluto<br />

l’atteggiamento meno adatto per studiare e per<br />

capire il Medio Evo e l’esplosione di simboli che caratterizza<br />

l’opera dantesca.<br />

9. Peraltro è più facile porsi queste domande banali e<br />

senza fantasia, che entrare nell’intensa problematica<br />

simbolica e poetica della Divina commedia. Dante<br />

vuole coinvolgere il lettore. Ed è quello che fa in tutta<br />

l’opera. In questo canto vuole fargli provare un<br />

sentimento di orrore (la scena del conte che morde il<br />

cranio del vescovo, il racconto della morte per fame<br />

del conte e dei figli, fatto dallo stesso conte, il sospetto<br />

di antropofagia), come in altri canti aveva voluto<br />

fargli provare sentimenti di altro tipo (di compassione<br />

per Francesca da Polenta, per Ciacco ecc.).<br />

Anche sentimenti sadici, come succede sùbito dopo:<br />

« “Ora però stendi la mano verso di me – dice frate<br />

Alberigo – ed àprimi gli occhi.” Io non glieli apersi,<br />

e cortesia fu esser villano con lui» (vv. 148-150) e<br />

com’era successo più sopra con Filippo Argenti: «Ed<br />

io: “O maestro, sarei molto desideroso di vederlo<br />

tuffato in quest’acqua sporca, prima che noi uscissimo<br />

dal lago”. Ed egli a me: “Prima che tu veda<br />

l’altra riva, sarai soddisfatto: conviene (=è necessario)<br />

che tu goda di tale desiderio”. Poco dopo io vidi<br />

fare di costui un tale strazio dalle genti della palude,<br />

che ne lodo ancora Dio e ne ringrazio. Tutti gridavano:<br />

“Addosso a Filippo Argenti!”; e il fiorentino<br />

dall’animo iracondo rivolgeva i denti contro se stesso»<br />

(If VIII, 52-63).<br />

10. Anche in questo caso chiedersi se Dante è sadico<br />

significa porsi una domanda insensata: Dante è poeta,<br />

e come tale deve coinvolgere il lettore. Lo può<br />

coinvolgere soltanto con l’esagerazione, con i forti<br />

sentimenti, con la varietà dei passi, con i forti contrasti,<br />

con i grandi esempi, e provando egli stesso quei<br />

sentimenti negativi che ogni individuo normalmente

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