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Da Roma a Cortina di Carlo Durazzo

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Dal racconto di Nicola Gandini

Harvey 2

Era l'autunno 1985, Harvey tenne la sua prima assemblea a Bologna, in casa di Patrizia Medail

(a proposito, nel frattempo erano state ammesse anche le donne, ma non si saprà mai se a opera

di Nicolò o di Paolo) e venne nominato il nuovo Consiglio Direttivo, del quale facevo parte

anch'io come vice-presidente designato dai Fondatori. I guai si erano però radicalizzati, infatti il

gruppo legato alla segreteria, sentendosi scavalcato, dichiarò guerra, lanciò al povero Paolo

accuse invereconde, e minacciò una scissione. Fummo piuttosto rigidi e, nel volgere di un paio

di mesi, al costo di qualche transazione "ad occhi bendati" e di alcune dimissioni, con molto

stress, qualche chiarimento e qualche significativa stretta di mano, la vittoria ci arrise e l'ordine

fu ristabilito. Paolo ebbe la sua soddisfazione da un lodo dei Probiviri e il "volemose ben" tornò

a regnare nella valle.

Dal 1986 al 1987

Harvey, dicevo, era il presidente, ed io, che avevo con lui un ottimo feeling oltre che trent'anni

di meno, fungevo da braccio destro, insomma potevo un po' considerarmi il "consigliere

delegato" e così, anche in coincidenza con il cessare dei miei impegni di lavoro (e magari non

avessi ricominciato mai più), tornai, proprio in quegli anni, a passare buona parte dell'inverno a

Cortina.

La prima cosa della quale mi resi subito conto fu che quegli amici "villeggianti", di Padova,

Treviso o Venezia, dei quali ho fatto cenno all'inizio, erano - tutti - diventati soci del 18. Ma

erano anche cambiati i tempi (soprattutto la moda), i mezzi e i costumi, e con essi sicuramente

anch'io. Dunque il parterre andava benone e occorreva solo renderlo più conscio di ciò che

significava, nel cuore di noi "veci", lo Sci Club 18. Un fatto questo che, fra i molti che c'erano

da affrontare, sembrò prioritario sia a me che a Harvey, si procedette quindi per gradi.

Per prima cosa, pur accogliendo qualche raro "temporaneo" e confermando nel loro ruolo quei

pochi che curiosamente erano così elencati, congelammo le ammissioni e operammo una

scrematura sull'elenco dei Soci, confermando nel piè di lista solo quei nominativi che davano

requisiti di concretezza. Potrà sembrare strano, ma in quegli anni la segretaria aveva lavorato

talmente alacremente che vi erano casi di personaggi che non sapevano neppure di essere soci.

Con questa politica "di rigore" si capì, pian piano, che far parte del 18 era sostanzialmente un

privilegio sportivo, e che entrarvi, da lì in poi, sarebbe stato più complicato.

Occorreva anche costituire una squadra che avesse quei requisiti "accademici" che sono

sottintesi nel nostro statuto e che, in quel momento, proprio non esisteva. Qui il discorso è stato

lento e difficile perché, come tutti abbiamo sperimentato, non sono cose che si improvvisano.

Comunque ci siamo mossi in quella direzione, reclutando i tre figli di Gianni Marzola, i ragazzi

Miari di Belluno e il bravo Guglielmo Sartori; siamo arrivati all'incontro Italo-Suisse dell'86,

perso per un soffio, con una squadra che pareva finalmente apparentarsi allo spirito e alla natura

del 18. Negli anni a seguire questa situazione si è poi via via rafforzata con il sopraggiungere dei

fratelli Reale, Maurizio Morelli (figlio di Roberto), Alberto Pivato, e infine, finalmente, con

l'esordio di un consistente gruppo di figli di Soci.

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