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Da Roma a Cortina di Carlo Durazzo

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come noi, eravamo stati per tanti anni difensori e gelosi custodi della tradizione accademica

italiana. Giorgio Franchetti, entusiasta, aprì in casa sua la prima sede di Roma e così Bubi

Signorelli a Catania, i Santi a Firenze, Mario Rasi a Feltre, Serralunga e White a Biella e

Giovanni Nasi a Torino».

Erano soci del 18 e il primo annuario del SAI li elenca tutti. Il SAI voleva essere al disopra dei

circoli e svolgere le funzioni che prima appartenevano al GUF, ma l’idea di Babini gli fu

scippata da forze politiche che fondarono il CUSI (Centro Universitario Sportivo Italiano) in

ogni università, per il quale si doveva tutti correre il Campionato Italiano Universitario e, se

selezionati, i Campionati del Mondo Universitari e le Universiadi. A quel punto, il SAI divenne

un circolo come tutti gli altri e si pose il problema della firma del cartellino FISI. La totalità dei

soci del 18 preferì allora restare fedele al suo Club. Giuliano Babini dopo un terribile incidente

di macchina negli anni 50, rimase paralizzato alle gambe, dal 1985 alla data del suo decesso; dal

1996 fu di nuovo socio del 18.

Fosco Maraini

Spirito poliedrico, anticonformista e irrequieto, anglo-fiorentino (suo padre era un famoso

scultore e sua madre scrittrice inglese aveva ascendenze mitteleuropee, polacche). Era un grande

appassionato di montagna e lo racconta, coinvolgendo il lettore nel suo romanzo "Case, amori,

universi" 8 dove descrive le sue arrampicate sulle Dolomiti con Tita Piaz negli anni 30 e le sue

gite sugli sci nell' Hokkaido, quando studiava l’antico popolo degli Ainu a Sapporo in Giappone

nel 1938. Fu un ottimo sciatore e partecipò al primo incontro del Gran Sasso nel 1936, anche al

secondo, alla Kleine Scheidegg . Rammenta bene l’incontro nel 1949 sull'Etna. I ricordi di

Fosco dell’epoca nel Sikkim si riferiscono al suo primo viaggio in Tibet nel 1937, a 25 anni

come fotografo della spedizione del famoso orientalista Giuseppe Tucci.

«Io ho un debito di gratitudine con Vincenzo La Porta, perché prima della guerra era podestà

di Selva, come lo diventò è meglio non indagare ... Un giorno, sarà stato il 1934 o 36, ci

trovammo a sciare per caso insieme, mi pare sul Passo Sella e lui mi disse: - ma sai in una

riunione del consiglio comunale ci siamo decisi a vendere dei pezzetti di terra per fare delle

villette, delle case in montagna per sciatori appassionati di montagna. A te non interesserebbe

un pezzettino? - Io dissi: - sì certo, figurati. Ma, essendo studente allora, avevo pochi soldi. Ci

trovammo in Comune e gli chiesi: ma qual è il pezzo che costa meno? - E allora lui tirò fuori

delle mappe e disse: - ci sarebbe un triangolino, ma te lo sconsiglio perché è un posto scosceso,

senza alberi, senza acqua. senza strada, insomma c'è, ma non capisco che cosa ci puoi fare...

Insomma, dissi: - quanto costa al metro quadro? - E lui mi rispose: - 50 centesimi. Comprai

1600 mq per 800 lire. E poi ci ho fatto la casa. Ma solo 20 anni dopo. Passarono tanti anni, io

andai in Giappone, c'era stata la guerra: avevo il terreno, ma non la casa. Nel 1956 scrissi un

libro sul Giappone, la cui traduzione americana ebbe un certo successo e mi portò un discreto

guadagno e allora intorno al 58/59 mi venne in mente il terreno di Selva: un po' trepidando

perché era passato moltissimo tempo, tornai lassù e pensavo che l'avessero incamerato. Invece,

incontrai un tipico silvano di quelli che parlano poco, che scartò, guardò le carte e mi disse: -

no, no, lei ha sempre diritto a costruire. E allora mi misi d'accordo con il costruttore e si fece

questa casa in stile gardenese, come un fienile. Si fece con gli abeti, ma non locali, gli abeti

dell'Alto Adige sono tutti a "cavaturaccioli", perché crescendo in pendio, sono soggetti alle

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