11.06.2013 Views

Antropologia museale, n. 28-29, 2011 - Dipartimento Storia Culture ...

Antropologia museale, n. 28-29, 2011 - Dipartimento Storia Culture ...

Antropologia museale, n. 28-29, 2011 - Dipartimento Storia Culture ...

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

produrre culture<br />

produrre culture ai tempi dell’UNESCO<br />

Quando nel 2003 l’UNESCO portò a conclusione il lungo iter di lavori che ha prodotto la stesura definitiva<br />

della Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, pochi in Italia, tra gli antropologi<br />

che si occupavano di beni culturali, guardavano alle politiche patrimoniali unescane come ad un terreno<br />

importante di indagine antropologica e di azione sociale per le politiche culturali – locali e non – relative<br />

al patrimonio. In quegli anni nel nostro angolo di mondo, <strong>Antropologia</strong> Museale vedeva la luce<br />

come rivista e fin dal suo primo numero aveva iniziato a presentare alla comunità antropologica gli elementi<br />

di un dibattito incentrato sui processi di patrimonializzazione al quale hanno partecipato alcuni fra<br />

i più attivi e impegnati antropologi italiani e che nel corso di questi ultimi dieci anni è fortemente maturato<br />

aprendosi agli scenari globali della patrimonializzazione rappresentati dalle politiche dell’UNESCO.<br />

Nella pratica etnografica era stato il lavoro critico di Berardino Palumbo sulla Sicilia Sud-orientale (L’Unesco<br />

e il campanile è stato pubblicato proprio nello stesso anno della stesura della Convenzione) ad aver focalizzato<br />

l’attenzione sui processi di patrimonializzazione e più nello specifico sui rapporti tra comunità locali<br />

e procedure transnazionali della patrimonializzazione legate al “patrimonio mondiale”, indicati come<br />

terreno di conflitto, di trasformazione, ma anche come luogo creativo di immaginazione patrimoniale.<br />

Dopo la ratifica italiana della Convenzione nel 2007 – un momento che ha rappresentato per Simbdea<br />

un’occasione di forte dialogo con la società civile e con le istituzioni – l’interesse della comunità antropologica,<br />

come anche le azioni culturali relative a quello che comunemente chiamiamo oggi “patrimonio culturale<br />

immateriale”, sono cresciuti. In Italia, tuttavia, il dibattito sull’immateriale, nelle sue diverse accezioni<br />

di intangibile/volatile, era presente nei nostri studi ben prima della stesura della Convenzione, ed ha<br />

rappresentato il “naturale” esito contemporaneo degli studi di tradizioni popolari, con importanti momenti<br />

di incontro con il mondo delle istituzioni, sia a livello regionale, nelle esperienze di regioni come<br />

Lombardia, Lazio o Piemonte, che nazionale, con l’esperienza della catalogazione dei beni demoetnoantropologici.<br />

Il confronto con altre realtà nazionali, come il Brasile, che è qui presente con due saggi, dove<br />

già da tempo si dialoga con le politiche unescane e la Costituzione riconosce il patrimonio “intangibile”,<br />

risulta particolarmente importante per collocarci in uno scenario mondiale delle politiche del patrimonio<br />

al quale risulta impossibile sottrarsi.<br />

Appare oggi sempre più evidente quanto siano densi gli scenari di immaginazione (che Palumbo definisce<br />

“tassonomie globali”) costruiti dall’UNESCO su scala mondiale, intorno ai quali (e a volte contro i quali) comunità<br />

e soggetti diversi, su scala locale e nazionale, sempre più si confrontano con azioni politiche e culturali.<br />

Ad attivare tali dinamiche è stata soprattutto l’istituzione da parte dell’UNESCO delle cosiddette “liste<br />

rappresentative” – oggi fortemente discusse in seno alla stessa UNESCO – uno strumento che, contrariamente<br />

a quelli che erano i suoi obiettivi originari, ha attivato un’arena complessa di competizioni, ridefinizioni<br />

culturali, manipolazioni, conflitti, ma anche esperienze di rete e di dialogo transculturale, che<br />

hanno visto le comunità attivarsi per ottenere un riconoscimento internazionale da molti considerato prestigioso<br />

e utile ai fini di una promozione del proprio territorio, ma che costringe anche ad una complessa<br />

negoziazione con il filtro che i singoli stati pongono alle richieste stesse di iscrizione, con tutto ciò che comporta<br />

in termini di conflittualità e competizione.<br />

In dialogo ed in continuità con i suoi primi numeri, i saggi presentati in questo numero di <strong>Antropologia</strong><br />

Museale vogliono restituire questo panorama di complessità; e lo fanno attraverso una serie di tematiche<br />

che si presentano come un filo rosso nei diversi saggi. Tra questi, la forte contraddizione che emerge dalle<br />

politiche di “oggettivazione culturale” unescane, tra il riconoscimento della diversità culturale come ricchezza<br />

da salvaguardare in uno scenario mondiale di pluralismo culturale e le pratiche burocratiche omologanti<br />

che, come linguaggi globali si impongono in questa nuova arena mondiale di identità e con i quali<br />

stati nazionali e comunità sono in qualche modo costretti a fare i conti. Diverse sono le scene ed i retroscena<br />

che si producono in tale nuovo spazio di azione culturale, dove si muovono interessi nazionali, locali,<br />

competenze specialistiche e rivendicazioni, materiali e “immateriali”, di diversi soggetti collettivi. In<br />

questo scenario va ricollocata la competenza antropologica e un sapere specialistico che se in Italia fatica<br />

ad essere riconosciuto nelle istituzioni e richiede da parte nostra azioni compatte per mantenere e definire<br />

un profilo, sta invece trovando importanti occasioni di dialogo e di lavoro nelle esperienze di rete che<br />

si stanno creando nel mondo delle associazioni; laddove nel campo delle politiche culturali a livello mondiale<br />

si assiste invece alla crisi delle competenze accademiche e specialistiche a favore di pratiche sempre<br />

più partecipative. Se per l’antropologo si aprono spazi sempre più interessanti per l’osservazione etnografica<br />

di nuovi scenari della patrimonializzazione, dall’altro la forte vicinanza con le istanze che provengono<br />

dalla società civile richiedono, anzi impongono all’antropologo che si cali nelle politiche culturali prendendo<br />

posizione, mediando, negoziando competenze, lavorando come operatori culturali, a volte difen-<br />

5

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!