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Antropologia museale, n. 28-29, 2011 - Dipartimento Storia Culture ...

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Nel riassunto dell’intervento, si insiste sull’importanza della ratificazione della<br />

Convenzione per gli “attori del mondo culturale, istituzionale ed ordinario”, come occasione<br />

par utilizzare il patrimonio come “risorsa economica, identitaria e turistica”.<br />

Sottolineando la natura sociale e processuale del patrimonio (“il patrimonio<br />

non esiste in sé”), che attribuisce agli oggetti il loro valore patrimoniale, ci si interroga<br />

sulle modalità di costruzione ed attribuzione di questo valore, sui processi di “fabbricazione<br />

dell’autenticità” e sulla legittimità dei suoi attori (“chi ha interesse a patrimonializzare,<br />

chi è legittimo per designare il patrimonio?”). Il testo si struttura in 5 punti.<br />

Il primo, “ciò che ci si aspetta dal patrimonio”, dà rilievo al fenomeno di portata<br />

mondiale con queste parole: “L’arrivo del concetto di PCI e le rappresentazioni che lo<br />

accompagnano, costituiscono oggi un vocabolario comune all’insieme del<br />

mondo, e potremmo facilmente fare un inventario alla Prévert, anche solo in Europa,<br />

degli oggetti che rivendicano il titolo di PCI: le processioni pasquali di Perpignan, la<br />

coltelleria inglese in acciaio, la minoranza greca in Italia del sud, le danze regionali in<br />

Catalogna, la gastronomia francese... (...). Questa effusione del patrimonio immateriale<br />

è animata da un sentimento condiviso che è fondamento di ogni impresa patrimoniale.<br />

Un sentimento di rottura tra le generazioni e la costatazione della perdita di<br />

oggetti, pratiche, saperi che devono essere salvati dall’oblio e dalla scomparsa”.<br />

Evocando il saggio di Michel Rautenberg 11 , “la rottura patrimoniale”, l’autore si sofferma<br />

sul “paradigma della perdita”. Ma, oltre la nostalgia, si pongono in rilievo due<br />

caratteristiche meno visibili ma ancor più efficaci (del PCI in particolare), che articolano<br />

un “doppio gioco del patrimonio”. Da un lato il patrimonio come radice dell’identità<br />

del gruppo e come “luogo di memoria”, (nel senso espresso da Pierre Nora,<br />

come cristallizzazione simbolica della storia del gruppo e dell’identità collettiva),<br />

dall’altro il patrimonio come leva di sviluppo sostenibile, oggetto di consumo e di investimenti<br />

economici. Viene evocato l’ossimoro della “perdita durevole” (Carcia<br />

2006), per una riflessione sulla natura paradossale di questo “doppio gioco” del patrimonio,<br />

tra conservazione e sviluppo, che deve appoggiarsi su “oggetti moribondi”<br />

per trasformarli in motori di sviluppo.<br />

Nel secondo punto, “il patrimonio non esiste” ci si sofferma sulla natura del patrimonio<br />

immateriale per sviluppare la riflessione sul patrimonio come prodotto di una<br />

azione che chiamiamo patrimonializzazione e che si effettua in una “arena sociale e<br />

politica particolare, secondo regole stabilite a livelli internazionali, nazionali, locali”. La<br />

Convenzione, prodotta da una istituzione sovra governativa, è in effetti applicata dagli<br />

Stati che devono “dirigere” le comunità locali”, produttrici di inventari del PCI. “La<br />

patrimonializzazione è un processo complesso e lungo nel quale intervengono attori<br />

così diversi come esperti scientifici, politici locali, rappresentanti di associazioni, membri<br />

di amministrazioni governative della cultura, ricercatori su committenza o ancora<br />

delegati delle minoranze etniche e culturali”. Questi attori, riuniti da una comune volontà<br />

di difesa del patrimonio, sono però orientati verso obbiettivi diversi. L’incrociarsi<br />

di interessi diversi può portare alla reciproca legittimazione o al contrario provocare<br />

conflitti. “Ciascuno trova dunque nella patrimonializzazione una buona ragione per<br />

fare apparire patrimoni laddove non ce ne sono alimentando la macchina patrimoniale<br />

utilizzando la definizione del PCI data dall’Unesco che copre praticamente tutte le produzioni<br />

intellettuali, artistiche, religiose e tecniche degli umani”.<br />

Nel terzo punto, “politiche del patrimonio”, si riflette sul cambiamento della nozione<br />

di patrimonio, da ideale democratico ed universalista, come fu concepito nel periodo<br />

della Rivoluzione francese, a risorsa mobilizzata nel gioco sociale. Si pone la questione,<br />

per alcuni fondamentale, dell’”autenticità” del patrimonio, in pericolo una<br />

volta scoperto il suo carattere di costruzione sociale. Postura difficile, tanto più se si<br />

considera il culto patrimoniale della “bellezza del morto”: “la nostalgia, la necrofilia e<br />

la dominazione politica implicano ugualmente nel pensiero di Jacques Revel,<br />

Dominique Julia e Michel De Certeau 12 che hanno inventato questa formidabile formula,<br />

una distruzione e una negazione delle popolazioni di cui si patrimonializza la cultura”.<br />

Nelle parole dell’autore, questa lettura disincantata, caricaturale, non è falsa ma<br />

parziale. Il fatto veramente rilevante è la diffusione impressionante del concetto di PCI,<br />

che supera di gran lunga la nozione di patrimonio culturale. “Le motivazioni patrimoniali<br />

stimolate dal PCI si intrecciano spesso con rivendicazioni etniche, culturali,<br />

minoritarie o politiche molto forti”. L’autore richiama l’attenzione sull’associazione<br />

tra azioni di patrimonializzazione e azioni politiche (di minoranze o degli Statinazione)<br />

come “fatto sociologico rilevante”.<br />

77<br />

11 - Rautenberg 1998.<br />

12 - Jacques Revel,<br />

Dominique Julia, Michel De<br />

Certeau, Une politique de la<br />

langue. La Révolution<br />

française et les patois.<br />

L’enquête de Grégoire<br />

(1790-1794), Paris, 1975;<br />

rééd. augmentée d’une<br />

postface de D. Julia et J.<br />

Revel, Paris, Gallimard, Folio,<br />

2002.

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