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Antropologia museale, n. 28-29, 2011 - Dipartimento Storia Culture ...

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nell’altro bocciando una candidatura e provocando in seno alla società senese forti polemiche<br />

sull’UNESCO, sul senso della Convenzione e della partecipazione delle comunità<br />

nella definizione del patrimonio immateriale.<br />

Arene patrimoniali ai tempi dell’UNESCO e omologazione catalografica<br />

Non so se sia una coincidenza il fatto che ad ottenere il riconoscimento UNESCO nel<br />

2010 è stata una candidatura che ha prodotto un inventario estraneo dalla partecipazione<br />

di una o più comunità – la Dieta – mentre la candidatura che ha prodotto un inventario<br />

realmente partecipato – Il Palio – non è neanche arrivata a Parigi ma si è fermata<br />

prima per questioni conflittuali interne alle vicende nazionali. Se non fosse un<br />

caso, questa coincidenza getterebbe una luce sinistra sulla reale partecipazione delle<br />

comunità nelle candidature rispetto al filtro degli Stati.<br />

Ma al di là di ciò, il campo degli inventari “ai tempi dell’UNESCO” si rivela strategico<br />

per l’antropologo perché, come ho tentato di mostrare, evidenzia un fitto articolarsi di<br />

mondi patrimoniali, arene del contemporaneo che nascono e si sviluppano tra ambiti<br />

locali e nazionali, ma entro cornici globali che costringono a farsi largo e a trovare una<br />

collocazione tra il linguaggio burocratico e omologante dell’UNESCO, necessario per<br />

poter effettuare la candidatura, e quello altrettanto omologante della catalogazione<br />

nazionale. Una varietà di articolazioni delle diverse comunità, patrimoniali e non, sul<br />

territorio che richiede un monitoraggio più profondo perché è su queste dinamiche del<br />

contemporaneo che si articolano oggi molte dinamiche identitarie e nuove forme di<br />

messa in valore dei fenomeni culturali collettivi.<br />

Più in generale si è visto come la catalogazione, quando è commissionata, seppure forzatamente,<br />

dagli stessi proponenti della candidatura, costringa in qualche modo i rappresentanti<br />

delle comunità a riflettere su cosa inserire nel novero del proprio bene da<br />

candidare. L’inventario nazionale, come ho già mostrato, costringe a distinguere<br />

nell’ambito di quel determinato bene, i diversi aspetti del bene che si ritiene contengano<br />

un valore di patrimonio immateriale (un particolare rito dentro il bene stesso, un<br />

canto, una tecnica specifica, un sapere, ecc.). Anche se si tratta sempre di un inventario<br />

“civilizzato”, ciò costringe i soggetti collettivi ad una riflessione sul senso tutto contemporaneo<br />

da attribuire al proprio bene in un particolare momento storico, entro<br />

arene e stili che si muovono su più livelli tra dinamiche politiche e processi culturali. Se<br />

si deve decidere cosa inserire, tra le tante possibilità, in un inventario nazionale relativo<br />

al “proprio” bene che va a candidarsi, è facile che si inizi a riflettere sia sul valore patrimoniale<br />

che si attribuisce a quell’evento, ma anche alle circostanze contingenti entro<br />

le quali si va a produrre quell’inventario (opportunità politiche del momento, effetto<br />

vetrina-eccellenza, ecc.).<br />

Nello specifico le criticità e i punti salienti del rapporto tra inventari, comunità e competenze<br />

antropologiche possono essere così riassunti:<br />

1. Innanzitutto, al di là di alcuni casi specifici, la catalogazione del patrimonio immateriale<br />

prodotta in Italia a supporto delle candidature UNESCO continua a non<br />

avere un rapporto realmente partecipato con le comunità proponenti perché, anche<br />

nei casi in cui l’inventario è stato prodotto in modo più condiviso, di fatto le<br />

schede sono percepite come corpi estranei imposti dall’alto, che vengono accettate<br />

solo per poter mandare avanti la candidatura, ma senza che se ne comprenda la<br />

natura o che ne venga in qualche modo spiegata l’articolazione.<br />

2. In secondo luogo, anche a posteriori le schede continuano ad avere una gestione<br />

centralizzata. Benché commissionate e pagate dai proponenti delle candidature,<br />

queste, oltre a fare parte di un catalogo nazionale (ciascuna scheda possiede un<br />

Numero di Catalogo Generale che è nazionale), vengono controllate e corrette da<br />

funzionari dello Stato non appartenenti a quelle comunità, i quali verificano che le<br />

schede siano corrette, sia sul piano della scelta dei beni da documentare, sia nella<br />

compilazione formale dei campi, secondo la normativa. In realtà il visto obbligatorio<br />

sulle schede viene messo dalla soprintendenza competente, ma come sappiamo<br />

non ci sono funzionari antropologi nelle soprintendenze nazionali.<br />

3. La stessa ambiguità riguarda la proprietà dei supporti e delle schede, proprietà che<br />

in questo caso è dei committenti, i quali tuttavia, non avendo scelto loro stessi di<br />

commissionare il lavoro, di questi supporti e delle stesse schede non sanno bene<br />

cosa farne, anche perché la scheda nasce già informatizzata e per essere letta ha<br />

bisogno di un Sistema Informativo (Sigec) che è in dotazione solo alle soprintendenze<br />

e all’ICCD. Chi commissiona l’inventario non può quindi fruire delle schede,

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