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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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Dopo una settimana di «latitanza», tornò a farsi viva la magistratura. Non la<br />

rappresentava più il sostituto procuratore Enzo Costanzo, ma - misteri burocratici del<br />

palazzo di giustizia - un suo più solenne, famoso collega: Pasquale Carcasio, noto<br />

alle cronache per alcuni interventi censori e per il meticoloso impegno e lo scarso<br />

senso del ridicolo con cui affrontò, ingigantendolo, il «caso Zanzara». Carcasio<br />

affondò le sue domande sul pomeriggio d'amore con Silvana. Forse gli andava a<br />

genio la bella trovata dei carabinieri: quell'abbandono sessuale, con nome e cognome<br />

sul registro della pensione Brescia, lo avevo studiato per precostituirmi un alibi di<br />

serenità a poche ore dal delitto. Molti aspetti della vicenda, secondo loro, lo<br />

lasciavano supporre: l'insistenza con cui avevo trainato la ritrosa Silvana nel<br />

compiacente alberghetto; l'essere andato in avanscoperta per fissare e pagare la<br />

camera; il fatto di aver voluto tenacemente e proprio in quel pomeriggio combinare<br />

un incontro in pensione, mentre, per mesi e mesi, m'ero arrangiato a spassarmela in<br />

via Veniero, approfittando dei lunghi orari di lavoro di tutti i miei familiari.<br />

Dovetti ripetere, per l'ennesima volta, la sequenza del «combino». Silvana nicchiava.<br />

Non gli piaceva l'idea della pensione. Aveva vergogna. Ma, ormai, eravamo a due<br />

passi dall'alberghetto e non mollai. Entrai da solo, per chiedere se c'era una stanza.<br />

C'era e la pagai. Poi raggiunsi Silvana e feci leva sul «tutto è a posto», per vincere le<br />

sue ultime resistenze. Una banale tattica maschile. Quanto al perché mi ero<br />

intestardito sulla pensione proprio il 10 febbraio, la verità è semplice, senza<br />

sottofondi. Avevo voglia di fare l'amore in un lettone matrimoniale, libero dal patema<br />

di un improvviso ritorno a casa di qualcuno dei miei, senza dover tenere le orecchie<br />

tese a un eventuale rumore di serratura. Era una colpa se questa voglia m'era venuta<br />

proprio il 10 febbraio, tredici ore dopo un delitto commesso da un «biondino», troppo<br />

vicino a via Veniero, a casa mia?<br />

Pasquale Carcasio lavorava, è naturale, sul rapporto giudiziario di denuncia che i<br />

carabinieri avevano redatto per la procura della Repubblica e che la magistratura<br />

aveva avallato, incriminandomi. Il comandante Francesco Paolo Bello e i suoi<br />

avevano tirato le somme e ovviamente s'erano spremuti il cervello perché i conti<br />

tornassero a vantaggio della propria tesi: indizi tratti da gratuite deduzioni; temerarie<br />

arrampicate sugli specchi per minimizzare le crepe dell'edificio di accuse e la già<br />

minima percentuale di incertezza di Italo Rovelli; salti mortali per far lievitare anche<br />

dal nulla le prove psicologiche della mia colpevolezza.<br />

Se allora avessi potuto leggere, come sto facendo adesso, le trenta cartelle del<br />

rapporto, non so se avrei retto al senso della mia totale impotenza di fronte alla<br />

determinazione pregiudiziale degli accusatori, alla loro volontà di spolpare sino<br />

all'osso e a ogni costo il «capro espiatorio». Ad ogni costo, anche quello di<br />

precipitare a capofitto nel ridicolo.<br />

Sono passati due anni. Ho ritrovato, se non un'impossibile serenità, un minimo di<br />

lucidità, di freddezza. E, ora, nel lungo «parto» di Francesco Paolo Bello, scopro tali<br />

stupidaggini e interpretazioni così puerili da farmi sperare almeno nello stupore del<br />

tribunale che dovrà giudicarmi sulla base anche di questo rapporto. La debolezza del<br />

referto steso, dopo le indagini, dall'inquisitore della «Benemerita» sta proprio nel<br />

continuo dedurre fuori dalle righe, nella plateale smania di accumulare indizi

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