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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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se vi pare. Certo, mi ero riaffacciato all'ambiente della «mala». Uno che ha vissuto la<br />

sua intera giovinezza fra case di correzione, riformatori e carcere ha ben poche<br />

alternative. Anzi, non ne ha affatto. Non bastano la buona volontà e i buoni propositi,<br />

quando la società ha cominciato a tenerti a distanza, a segregarti che eri ancora un<br />

ragazzetto in calzoni corti. Del resto, di buona volontà, non ne avevo affatto. Dopo<br />

due anni di galera e sei mesi di naia, volevo soltanto godermelo, quel provvisorio<br />

periodo di libertà. Mi lasciai scivolare sul piano inclinato della mia condizione. Mi<br />

reinserii nell'ambiente. Non avevo altri amici. Questa debolezza - ma è più giusto<br />

parlare di abito mentale tagliato e cucito dallo Stato - la sto pagando con l'incubo<br />

dell'ergastolo.<br />

Mangiare, andare a spasso, bighellonare nei caffè, fare l'amore e tirare mattina: ecco<br />

la mia vita di marmittone in licenza. Giornate da vitellone che si bruciarono in fretta,<br />

anche se avevo ottenuto altre due settimane di convalescenza dall'ospedale militare di<br />

Baggio «per stato ansioso e labilità emotiva».<br />

Stava ormai per scoccare l'ora del rientro al reggimento. La licenza era agli sgoccioli.<br />

La mattina del 25 marzo, andai a far vidimare le mie carte al distretto. Mi dissero che,<br />

prima di partire per Trieste, sarei dovuto tornare a Baggio, per una visita di controllo.<br />

Potevo sperare ancora in un supplemento di libertà. Verso mezzogiorno, ero di nuovo<br />

sotto casa. E subito sentii puzza di bruciato. C'era uno strano movimento davanti al<br />

portone. Sul marciapiede s'aggiravano tre-quattro sfaccendati. Almeno tali volevano<br />

apparire. Le loro facce, però, erano inequivocabilmente da «grippa», da carabinieri.<br />

Attraversai l'androne e vidi altri «sbirri» appostati in cortile. Non mi scomposi. Ero<br />

pulito, tranquillo. Non avevo fatto nessun «lavoretto». Non avevo pendenze con la<br />

giustizia. Presi le scale. Sul pianerottolo del primo e del secondo piano, altri<br />

sfaccendati in attesa. Non potevo avere più dubbi. Si trattava di carabinieri in<br />

borghese. Tirai dritto. I miei abitavano al quinto. Ormai era chiaro: aspettavano il<br />

sottoscritto. Infatti, ecco, appoggiato allo stipite della mia porta, l'ultimo «grippa».<br />

«Lei è Virgilio Pasquale?» mi chiese. E passò subito al tu: «Vieni con noi. È una cosa<br />

da nulla. La tua licenza non è in ordine. Sarà questione di mezz'ora».<br />

Sono quasi ottocento giorni che aspetto la fine di quella mezz'ora.<br />

Anche se me la dovessi cavare, quel 25 marzo 1967 lo ricorderò sempre. L'incubo ha<br />

questa data di nascita. Una squadra di «grippa», tanti da far pensare all'arresto di un<br />

Al Capone, mi scorta al reparto carabinieri di polizia giudiziaria del palazzo di<br />

giustizia. Sono in divisa e mi tolgono le stellette, le mostrine, il cinturone. Comincia<br />

il primo round: la solita sedia e, dietro alla scrivania, un tenente in borghese. Mi<br />

mostrano diverse fotografie segnaletiche. È gente del giro. Li conosco bene. Ma<br />

nego. Per vecchia abitudine, per esperienze di «mestiere», mi chiudo in difesa. Sono<br />

sempre rogne da grattare. Meglio fare lo gnorri. Per un po' va avanti così: loro a<br />

chiedermi se quei tizi sono amici miei e io a cadere dalle nuvole. Poi, il gioco si fa<br />

più caldo.<br />

Vogliono che confessi di aver partecipato ad alcune rapine, come complice dei<br />

balordi in questione. Per rendermi il compito più facile, me le elencano: due «colpi» a<br />

Trieste e sul lago di Garda; due rapine a Milano (al notaio Cipollone, alla farmacia di<br />

viale Ranzoni) e un'altra alla gioielleria di Ravagnate. «Confessa», dicono, «ti

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