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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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ei di furtarelli familiari. C'erano ragazzi più grandi, con qualcosa d'assai più serio<br />

sulle spalle. C'erano i «grandi» dell'annesso carcere minorile. Erano i nostri<br />

«esempi», quelli da imitare in un'età in cui il mimetismo è naturale. Tenevano banco,<br />

facevano lezione quotidiana di vita vissuta.<br />

Nel «ghetto» di Catanzaro, ho frequentato le elementari del furto. Quando, dopo un<br />

anno, fui dimesso dal riformatorio, avevo imparato assai più dagli «amici», dai<br />

«grandi», che dagli «educatori» dello Stato. Ero potenzialmente uno scassinatore, un<br />

fottiautomobili, uno scippatore. Mi lasciarono andare, perché la mia famiglia si era<br />

potuta finalmente riunire. Mia madre aveva raggiunto papà, a Milano. Zia Nuzza mi<br />

caricò sulla Freccia del Sud, pregando un compaesano di darmi un occhio. Approdai,<br />

così, al mitico «nord».<br />

Cominciava una nuova esistenza. Ero frastornato, ma felice. Mi avevano già trovato<br />

un lavoro: «pinella», ragazzo di bottega da un parrucchiere per signora. La domenica<br />

e il lunedì giocavo nelle aiuole di piazzale Lotto, non più di cinquanta metri dal<br />

distributore dove, quindici anni dopo, avrei, secondo questa dannata accusa,<br />

ammazzato Innocenzo Prezzavento. Del piazzale imparai a conoscere ogni pietra. Era<br />

e, nel ricordo di un dolce periodo, è rimasto il teatro della mia breve adolescenza:<br />

un'adolescenza recuperata dall'incubo del cubicolo 17 di Catanzaro. E proprio qui,<br />

avrei sparato su un uomo.<br />

Cose da pazzi. Anche per il peggior criminale esiste, credo, un territorio del cuore,<br />

indissacrabile.<br />

Lavoravo. Ma, intanto, la contaminazione del riformatorio, il virus assorbito in quel<br />

carcere truccato da casa di rieducazione lievitavano. Mi stufavo dei posti. Cambiavo<br />

di continuo: fattorino, manovale nei cantieri, aiuto barista. Di tutto un po', ma con<br />

poca voglia. Riuscii, comunque, a rigare dritto per tre anni. Un giorno, noi ragazzi del<br />

quartiere organizzammo una festicciola: bibite, panini, giradischi e appartamento<br />

libero da noiosi genitori. Mancava soltanto l'assortimento dei dischi, necessario a<br />

creare l'ambiente. Soldi non ne avevamo. Avevo contribuito meno degli altri alle<br />

spese generali e decisi di agire. Ci avrei pensato io. Il virus aveva evidentemente<br />

completato la propria incubazione.<br />

Era mezzogiorno. La festa era in programma per le tre. Mi diressi, a piedi, verso il<br />

centro. In via Boccaccio, vidi il negozio che faceva al caso mio. La porta a vetri era<br />

ovviamente chiusa. Cercai di forzarla. Resistette. Ricordai un insegnamento della<br />

«scuola» di Catanzaro: la tecnica del sasso avvolto in un fazzoletto. E l'attuai.<br />

Nonostante il frastuono spaventoso, nessuno accorse. Mi sudavano le mani. Entrai.<br />

Nel retro c'era ogni ben di dio in fatto di musica leggera. Non avevo che da scegliere.<br />

Ma. per mia disgrazia, mi piaceva, allora, una ragazzina che andava pazza per<br />

Modugno. Potevo rifiutarle un 45 giri del suo eroe canoro? Mi misi a cercare. Passò<br />

una buona mezz'ora. Niente. Era introvabile. Alla fine, rinunciai. Rastrellai una<br />

decina di microsolco. E confezionai un bel paccone.<br />

Stavo per andarmene. Ma c'era la cassa. Che forte tentazione. Ormai, ero in ballo e<br />

soccombetti. L'aprii. C'erano parecchi soldi di taglio piccolo. Me ne riempii le tasche.<br />

Per la precisione, ottantatremila lire. Potevo filarmela. Ma, con la coda dell'occhio,<br />

vidi la portiera del palazzo piazzata sul portone. Fregatura. Aspettai una decina di

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