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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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conviene. Tanto loro hanno già parlato, hanno fatto il tuo nome». È il rituale<br />

saltafosso. Non ci casco. Insisto nel «no». «Vedrai», minacciano, «abbiamo convinto<br />

avanzi di galera con i coglioni più quadrati dei tuoi!».<br />

II loro «vedrai» si attua nei sotterranei, proprio dietro le camere di sicurezza che<br />

servono per i detenuti nelle pause dei processi. Mi portano giù, per lavorare più<br />

tranquilli. È una stanza squallida: un tavolo, qualche sedia, un telone per le foto<br />

segnaletiche, un lavandino. Il tenente è rimasto nell'ufficio di rappresentanza: un<br />

ufficiale non si sporca le mani. Adesso, mi stanno addosso marescialli, brigadieri e<br />

appuntati: saranno una dozzina. Dal botta e risposta, si passa alle «calcate». Per ora<br />

sono «calcate» leggere. Il trattamento mi convince, anche perché sarebbe ormai<br />

assurdo negare l'evidenza, Ammetto parzialmente la verità. Sì, conosco Michele,<br />

Gina e Mario.<br />

Quella prima ammissione era molto al di sotto della parzialità. Non volevo farmi<br />

incastrare in un ginepraio. Sapevo, per averlo letto sui giornali, che gli amici erano<br />

stati pizzicati per una serie di «colpi» e, temporeggiando, cercavo di non inguaiarmi.<br />

In fase istruttoria ho ritoccato, a poco a poco, la versione iniziale, graduando la verità<br />

fino alla totale realtà dei fatti che esposi, nell'aprile del 1968, ai giudici del processo<br />

per le rapine. Cominciai a riconoscere che la mia amicizia con Michele e Mario<br />

risaliva ai tempi della galera. Li avevo visti, per l'ultima volta, il 17 febbraio. Mi<br />

trovavo a casa di Gina, una ragazza di vita. Le avevo chiesto ospitalità per quella<br />

notte. Dovevo cedere il mio letto a uno zio, che arrivava in visita da Vibo Valentia.<br />

Quella notte dormivo, quando, verso le due, Gina rientrò con Michele e Mario.<br />

Qualcuno propose una spaghettata. Ma non c'era materia prima e, allora, decisero di<br />

uscire per trovare un ristorante aperto. Mi invitarono.<br />

Uscimmo tutti e quattro e ci stipammo nella 500 di Michele. In via Cenisio, si forò<br />

una gomma. Non avevamo la ruota di scorta. Era un guaio. Per un po' vagammo qua<br />

e là, claudicando su un cerchione. Cercavamo un'officina aperta. Niente. Nei pressi di<br />

viale Certosa, ci fermammo. Bisognava alleggerire la 500, per non scassarla. Gina e<br />

Mario presero un tassi, per tornarsene a casa. Io e Michele continuammo la caccia al<br />

garage. Zero. Allora, l'amico mi disse di aspettarlo. Ci avrebbe pensato lui. E sparì.<br />

Riapparve, dopo una ventina di minuti, al volante di una Citroen. «Me l'hanno<br />

prestata. Sali»: così prevenne le mie domande. Perché avrei dovuto arricciare il naso?<br />

Certo, poteva averla rubata. Fattacci suoi. Non ero un «vergine» e non avevo<br />

particolari sensibilità al riguardo.<br />

Rientrammo dalla Gina. Ormai, era troppo tardi per gli spaghetti. Dopo un po',<br />

Michele cominciò a fremere. Doveva far riparare la gomma della 500. Aveva un<br />

impegno alle otto e gli occorreva la macchina. Se ne andò. Lo accompagnai di sotto,<br />

per aprirgli il portello. Il tempo di salutarlo e, poi, a letto. Mi svegliai alle undici di<br />

mattina. Michele era appena rientrato. Alle due del pomeriggio, feci fagotto e me ne<br />

tornai in via Veniero.<br />

Questa è, per quel che mi compete, la reale sequenza di quella notte: un tirare mattina<br />

senza senso. Ho rivisto la brigata, gli amici in galera e al processo. Un processo che<br />

mi è costato una condanna a tre anni di carcere. È un bel pagare per un'imprudenza.<br />

Tre anni per aver messo il culo su un'auto di provenienza sospetta (la sentenza parla

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