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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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dopo, chiesi anche il patrocinio di Giovanni Bovio. Me lo aveva suggerito Carlo<br />

Botta, il re della truffa morto d'infarto a San Vittore durante la prima rivolta del 1968.<br />

Era il «santone» del carcere. Navigava meglio di un avvocato nei codici e nei cavilli<br />

della procedura penale. Aveva sentenziato: «Quando c'è in ballo un omicidio, un solo<br />

difensore non basta. Dai retta a me». E mi aveva aiutato a scrivere una lettera di<br />

sondaggio a Bovio, con una raccomandazione finale di suo pugno. Dopo aver<br />

soppesato il «caso», Bovio s'era detto disposto ad assumere la mia difesa.<br />

In fase istruttoria, non si può essere assistiti da due avvocati. Per aggirare l'ostacolo,<br />

designai Cillario alle rapine (secondo i carabinieri, erano una dozzina e le avevo<br />

messe a segno con Michele e soci) che, intanto, un altro procedimento a mio carico<br />

stava addossandomi. Si trattava di uno stratagemma. In realtà, Armando Cillario<br />

continuò e continua ad occuparsi dell'imputazione più deterrente, quella di omicidio,<br />

come alleato paritetico di Giovanni Bovio. Ambedue, desidero dirlo, hanno accettato<br />

di essere pagati con la moneta della gratitudine. La sola di cui posso disporre. Non mi<br />

ritrovo in tasca neppure cento lire, per offrire un caffè a chi lavora per strapparmi a<br />

questo inferno. Ero e sono un poveraccio. Soldi in casa ne girano pochi. Mio padre si<br />

guadagna la vita da imbianchino e mia madre sgobba a servizio.<br />

I colloqui con gli avvocati, qualche interrogatorio: ecco il solo antidoto all'angoscia<br />

che, in quei mesi di rodaggio dell'istruttoria, aveva messo radici dentro di me,<br />

trovando una tremenda incubatrice in mille domande senza risposta. È terribile non<br />

sapere. Aspettavo, aspettavo, e la testa certe notti partiva. Non c'è al mondo niente di<br />

peggio di un'innocenza che invecchia e inacidisce in una cella, che a tentoni cerca<br />

una notizia, qualcosa di nuovo sulla sua sorte. In carcere, l'innocenza è uno stato del<br />

tutto astratto. Non conforta, non aiuta a sopravvivere, non serve. Anzi, diventa collera<br />

e la collera fa da cortina fumogena alla lucidità, alla freddezza che sono essenziali,<br />

invece, per imporre la propria non colpevolezza.<br />

Tre mesi di rabbioso torpore. Poi, il 27 giugno, mi vennero a prendere per il<br />

sopralluogo o, come diceva l'ordinanza, «esperimento giudiziale per accertare lo<br />

svolgimento dei fatti secondo le deposizioni di Italo Rovelli». Era, comunque, una<br />

novità che interrompeva lo stillicidio dei pensieri. Mi piazzarono su un cellulare,<br />

ammanettato e stretto fra quattro «grippa». Arrivammo in piazzale Lotto verso<br />

mezzanotte. C'era un mucchio di folla. Là in mezzo ne conoscevo tanti: gente del mio<br />

quartiere, della mia via, che volevano vedere la «belva». Mi guardavano torvi.<br />

«Si può cominciare», annunciò il giudice istruttore Berardi. E il mio avvocato?<br />

C'erano quelli di parte civile. Ma del mio difensore manco l'ombra. «Guardi che<br />

senza avvocato non faccio proprio niente», gli dissi. Lui buttò là distrattamente un<br />

«tutto è regolare: gli è stata inviata la notifica». Non era regolare affatto.<br />

«Telefonategli», dissi, «se non ho il difensore, il sopralluogo ve lo amministrate voi.<br />

Fatelo da soli. Io non mi muovo». «Allora hai paura che ti vada male»: questo fu il<br />

suo ricatto. E dovetti cedere: «Se la pensa così, forza. Sono pronto».<br />

Mi fecero indossare il cappotto color cammello che avevano sequestrato a casa mia.<br />

Mi portarono dentro all'ufficio. Sudavo come una fontana. Un capitano della<br />

«Benemerita» non si lasciò scappare l'occasione per la sua brava battuta a soggetto:<br />

«Sudi eh! Faceva caldo così quella notte?». Mi infilarono una borsa sottobraccio:

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