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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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Dal canto suo, Marcello Dal Buono non ha davvero la forza psichica di imporsi, di<br />

reagire. Non cambia una virgola della sua deposizione, ma sembra quasi rassegnato a<br />

non essere creduto. L'aula gli è ostile. Nessuno vuole ricordare che il padre di<br />

Marcello ha parlato di un preciso inizio delle depressioni nervose: il febbraio 1967, il<br />

mese del delitto di piazzale Lotto. E non lo ha fatto di certo per sfizio. Meglio<br />

abbandonarsi a quattro risate e togliersi dai piedi un tale «ingombro». Un avvocato di<br />

parte civile chiede che la si smetta con questa inutile perdita di tempo. È troppo<br />

pretendere almeno un dubbio sulle radici dei disturbi psichici di Marcello Dal<br />

Buono? È troppo affacciare l'ipotesi di un nesso fra l'omicidio di Innocenzo<br />

Prezzavento e il «male oscuro» di Marcello? Pare proprio di sì. Marcello Dal Buono<br />

se ne va, fra il mormorio della folla. Avverto nell'aula un senso di liberazione, come<br />

se si trattasse dell'allontanamento di un intruso.<br />

Che importa allora, se, sul finire delle udienze, il racconto di Marcello trova un<br />

alleato esterno. Il presidente convoca al pretorio il perito balistico e il tribunale si<br />

sente spiegare che l'omicida ha sparato sì con una pistola calibro 9 corto ma truccata<br />

con una canna di calibro 7,65. Una rivoltella a canne intercambiabili, insomma. È un<br />

particolare che non è mai stato rivelato alla stampa, che è rimasto sepolto nel<br />

catafascio di verbali e rapporti dell'istruttoria, noto soltanto agli addetti ai lavori e agli<br />

avvocati. Marcello non ha forse specificato di avere gettato nel Lambro due canne di<br />

calibro diverso? E’ una prova lampante della sua attendibilità. A meno che non si<br />

supponga che il teste sia stato imboccato dai miei difensori.<br />

Armando Cillario cerca di calamitare l'attenzione della corte su questo determinante<br />

particolare. Chiede che si valutino le rivelazioni del testimone volontario da tale<br />

prospettiva. Il suo intervento rimane a mezz'aria, naviga in una palude d'indifferenza.<br />

Ha più successo un'istanza della parte civile, a cui si associa il pubblico ministero:<br />

l'inoltro alla corte della cartella clinica relativa al ricovero e alla degenza di Marcello<br />

Dal Buono a Villa Turro; la citazione urgente del professore Gaddo Treves, direttore<br />

della casa di cura. Sul mio ormai precario salvatore si addensa la minaccia di un<br />

colpo di spugna a favore di diagnosi psichiatriche e di ombre freudiane. Le mie<br />

speranze sono purtroppo gelidi cadaverini. Poteva essere la mia giornata. Invece, la<br />

barca affonda irrimediabilmente.<br />

Martedì 13 maggio. Quarta udienza. Questa notte non ho chiuso occhio. Sono carico<br />

di odio per questo sordo tribunale. E non me ne vergogno. Qui fanno di tutto per<br />

scaricarmi all'ergastolo e a tempo di record, perché hanno bisogno di quest'aula per il<br />

processo al «bruto di Bollate». Mi ronzano nell'animo le risate beffarde, con cui il<br />

pubblico ha accompagnato la dolorosa deposizione di Dal Buono. Comunque,<br />

andiamo avanti. Mi sembra impossibile, assurdo che la «bomba Dal Buono» si<br />

risolva in una pernacchietta.<br />

Entra la corte. Il professor Gaddo Treves, convocato con formula d'urgenza, aspetta<br />

nella saletta dei testimoni. Lo fanno entrare. Sembra poco disposto a buttare in pasto<br />

all'aula la psiche di Marcello Dal Buono. Si trincera dietro il segreto professionale. Il<br />

presidente ordina che si proceda a porte chiuse. Viene sgomberata l'aula. Lo<br />

psichiatra, adesso, accantona le reticenze e riferisce alla corte la storia clinica del suo<br />

cliente. Non ci capisco molto. Riesco a captare solo i termini «sindrome

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