ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia
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presentato al Car di Arezzo, appena uscito di galera dove, grazie all'amnistia, avevo<br />
scontato un anno e mezzo dei due che mi erano stati affibbiati per furto<br />
pluriaggravato. Non è allegro annusare la libertà e ritrovarsi subito in divisa. Ma, al<br />
Car, il tempo era passato in un baleno. Quasi mi divertii. Avevo un ufficiale superiore<br />
capace di generosità e di comprensione. Sapeva tutto di me e mi aiutava. Feci anche il<br />
Car avanzato, per diventare assaltatore. Poi, mi spedirono al 151° reggimento della<br />
brigata Sassari di stanza a Trieste. Fu un disastro. Avevo ansia di casa. Al reggimento<br />
non mi ci rigiravo. Comunque, rigai dritto per qualche mese. Non beccai mai una<br />
punizione, neppure le semplici consegne. Vivevo per le licenze e non sgarravo per<br />
meritarle. Aspettavo, rassegnato, che la naia finisse. Ma un giorno, non ressi più. Mi<br />
diede di volta il cervello. Fatto sta che mi vestii da libera uscita e mi presentai al<br />
comandante di compagnia. «Me ne vado», gli dissi e infilai la porta. Mi bloccarono al<br />
corpo di guardia, mi impacchettarono e mi portarono dal colonnello. Ormai ero<br />
«partito». Lo insultai e mollai un pugno alla scrivania. Roba da fortezza, da Gaeta. Si<br />
guardarono allibiti. Infermeria, iniezioni calmanti, autoambulanza e manicomio di<br />
Udine: tutto nel giro di poche ore. A Udine mi riscontrarono un grave esaurimento<br />
nervoso e uno stato di intensa agitazione psicomotoria. Riposo, tre iniezioni al giorno<br />
e molte paternali. Alla fine, mi spedirono a casa. Ci arrivai il 26 gennaio, vale a dire<br />
quindici giorni prima del delitto di piazzale Lotto. Mia madre era stata avvisata,<br />
sapeva che ero un po' giù di cervello e mi coccolava. Ero in licenza e facevo una vita<br />
da pascià. Niente di eccezionale. Ma avevo alle spalle le sbarre della prigione, la naia,<br />
le camerate del manicomio. Due anni duri, senz'aria. Per me la libertà di movimento,<br />
di scelte era già di per se stessa una cosa sensazionale. E me la godevo. Ero quasi<br />
cronometrico nelle mie cose. A questa cadenza di abitudini mi sono successivamente<br />
aggrappato per ricordare, nel buio della normalità, qualcosa dei miei spostamenti fra<br />
il 9 e il 10 febbraio.<br />
Ogni mattina mi alzavo verso le dieci e trovavo immancabilmente sul comodino<br />
cinquecento lire: un pensiero di mia madre - quarantanni a fare la serva - per le<br />
piccole spese. Uscivo da via Veniero, compravo un giornale, attraversavo piazzale<br />
Lotto e mi piazzavo nel bar del distributore Esso, quello del delitto. Un caffè, qualche<br />
partita a flipper, un po' di dischi al jukebox, un'occhiata alla cronaca nera per vedere<br />
se qualche vecchia conoscenza fosse stata pizzicata dalla «madama». Così, ingranavo<br />
le mie giornate. Un'oretta per carburarmi e prendevo la metropolitana per andare in<br />
centro. Nella stazione della metropolitana di piazza del Duomo, c'è un baretto<br />
affollato di studentesse e impiegate che bigiano la scuola o l'ufficio. Un ottimo<br />
territorio per dragare, per rimorchiare una ragazza. Spesso mi riusciva. Nei giorni di<br />
grande successo, ne agganciavo più d'una. E, allora, telefonavo agli amici provvisti di<br />
grana e di macchina. Risolvevo, così, anche il problema finanziario. Quelli<br />
«marciavano», pagavano per tutti. Se andavo in bianco e per di più ero al verde,<br />
avevo una ragazza fissa. Le volevo davvero bene. Le altre erano riempitivi per il<br />
pomeriggio. Lei lavorava.<br />
Insomma, me la passavo benone. Trovavo sempre qualche «collega» disposto a darmi<br />
una mano. Sapevano che ero militare, che ero «in secca», e mi allungavano un po' di<br />
lire. Se c'era da fare baldoria, mi invitavano. Solidarietà di categoria: chiamatela così,