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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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sono innocente, al di là di Gian Domenico Pisapia. Vale la pena cercare di<br />

dimostrarlo, di portare la corte entro i varchi dell'istruttoria, perché ne verifichi le<br />

incongruenze, le contraddizioni, le malformazioni pregiudiziali.<br />

Il pubblico ministero afferma che Pisapia e Dal Buono non hanno offerto nuovi,<br />

probanti elementi di giudizio. Ma il vero problema era quello di porsi di fronte agli<br />

elementi (confessione, riconoscimento, alibi) dell'istruttoria da una prospettiva<br />

diversa ed essenziale per la giustizia: quella del dubbio non soltanto sulle mie<br />

proteste d'innocenza ma anche sulla mia colpevolezza. Se tale prospettiva è ora<br />

agibile, il merito è di Gian Domenico Pisapia. «È venuto qui a far suonare un<br />

campanello d'allarme», dice Bovio, in evidente polemica con il pubblico ministero.<br />

«C'è un'innegabile validità drammatica nelle parole di chi, avendo individuato la<br />

verità, si è reso pubblicamente compartecipe della ricerca di questa verità. La sua<br />

testimonianza non è una prova tecnica, d'accordo. È la dichiarazione di un<br />

galantuomo che grida: l'assassino è un altro. Inoltre, la sua deposizione è servita a<br />

richiamare certi testi, a citarne dei nuovi e a togliere la maschera pirandelliana a un<br />

giovane che ha testimoniato spontaneamente. È servita a far riflettere su certi indizi».<br />

E proprio in questo nuovo clima di riflessione, la difesa analizza i cardini<br />

dell'incriminazione. Bovio e Cillario ripercorrono il cammino del pubblico ministero,<br />

per confutare le sue argomentazioni di sostegno alla tesi della «sconcertante<br />

ambivalenza probatoria» e quindi all'insufficienza di prove. Confessione. «L'imputato<br />

ha raccontato, in aula, di avere subito violenze e le ha specificate. Se non vogliamo<br />

parlare di confessione estorta, possiamo usare altri aggettivi come assurda,<br />

incongruente e falsa. È stata una confessione abilmente montata dall'accusa, per<br />

fornirle un crisma di spontaneità e verità. Ma, in realtà, non contiene niente di nuovo<br />

rispetto a quanto i carabinieri già sapevano».<br />

Riconoscimento. «Si può essere d'accordo sulla buona fede del Rovelli. Ma egli ha<br />

peccato per eccesso di zelo e si è sbagliato con grave leggerezza. La descrizione che<br />

egli ha fatto dell'assassino (alto un metro e ottanta, ciuffo ondulato) non si attaglia al<br />

Virgilio. Il Rovelli è stato portato al riconoscimento di Pasquale Virgilio per<br />

suggestione, dopo aver appreso che aveva confessato». Antonio Scopelliti ha detto:<br />

«noi dubitiamo». La mia difesa dice: «si è sbagliato». Ma sui perché concordano. Il<br />

prodigioso Italo Rovelli esce da questo processo con le ossa rotte. Vi era entrato con<br />

il marchio dell'infallibilità.<br />

Alibi. La pubblica accusa afferma che gli alibi dell'imputato non hanno retto al<br />

controllo istruttorie, ma intuisce, nel continuo anticipare (malattia) e posticipare<br />

(cinema Roma) gli avvenimenti, la tipica e difficile corsa al ricordo dell'innocente.<br />

Gli alibi, invece, non si sono frantumati. Quello della serata in casa è stato<br />

confermato dalla madre e dalla cugina che, in aula, ha insistito sulla circostanza,<br />

nonostante un'ammonizione del presidente. I legami di parentela insospettiscono?<br />

Allora, altri testimoni sono venuti in tribunale a giurare che Pasquale Virgilio non ha<br />

mai posseduto una borsa come quella vista nelle mani dell'assassino e che, all'epoca<br />

del delitto, non aveva un cappotto come quello indossato dall'omicida.<br />

La confessione non è valida, il riconoscimento è risibile, gli alibi esistono e gli atti<br />

del processo non offrono un quadro di «sconcertante ambivalenza probatoria»,

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