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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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minuti. Quella non si muoveva. Non potevo più «trattenermi». L'unica era uscire,<br />

come se niente fosse. Feci tre passi ed ecco l'urlo: «Al ladro, al ladro». Buttai i dischi<br />

a terra e via. Mi venne dietro il solito gambalesta: un trampoliere. Inciampai e mi fu<br />

addosso. La «madama», un blando interrogatorio, la disperazione di mia madre e<br />

l'ingresso al Beccaria. Mi processarono: assoluzione per incapacità di intendere e di<br />

volere. La vita al Beccaria era da grande albergo, in confronto a quella di Catanzaro.<br />

Comunque, meglio la libertà. Anche se gli amici del quartiere mi voltarono le spalle e<br />

in famiglia mi resero la vita dura.<br />

Per ripicca, smisi di lavorare e pensai di guadagnare a modo mio. L'inizio fu<br />

disastroso. Obiettivo: una vetrina di elettrodomestici in corso Magenta. L'aggredii,<br />

con una spranga di ferro, alle due di un pomeriggio. Bottino: tre radioline e un rasoio<br />

elettrico. Mi bloccarono e mi portarono direttamente al Beccaria, ma questa volta alla<br />

sezione carceraria. Istruttoria, processo e condanna al riformatorio sino ai ventun<br />

anni. Mi assegnarono alla «casa» di Pallanza. Là ebbi modo di rifinire il mio<br />

rodaggio delinquenziale. Perché andavo in giro a spaccare vetrine alle due di<br />

pomeriggio? E giù lezioni di teoria dello scasso, del furto d'auto con forcine e limette<br />

delle unghie.<br />

Avevo scelto. Avrei continuato a fare il balordo. Per Natale, ottenni una licenza di<br />

cinque giorni che naturalmente prolungai a tempo indeterminato, ingannando i miei<br />

con una falsa partenza. Mi trovai un socio, esperto a giostrare di temperino sulle<br />

serrature delle auto. Rubacchiavamo valigie, coperte, radio. Di notte, si dormiva in<br />

macchina. Fu una lunga, avventurosa «vacanza». Mi ripresero, per una «soffiata» di<br />

mia madre. Mesi e mesi a Pallanza. Poi una nuova fuga. Basta Milano. Cambiai aria.<br />

A Torino, abitavano alcuni amici di riformatorio. Erano appena stati dimessi. Ci<br />

mettemmo insieme. Fregavo di tutto e loro smistavano la refurtiva ai «koch», ai<br />

ricettatori. Ero diventato un maestro del furto d'auto: trenta secondi per serratura e<br />

accensione. Mi fu fatale l'inquietudine. Volli tornare a Milano e mi beccarono dentro<br />

alla pellicceria di piazzale Loreto. Avevo diciott'anni e feci, così, il mio debutto a San<br />

Vittore. Non ne fui spaesato. C'era gente di Pallanza e del Beccaria. Già, perché il<br />

riformatorio rieduca! Finita la pena mi traslocarono ancora a Pallanza. Avrei dovuto<br />

restarci sino alla maggiore età.<br />

Sette mesi e me la svignai, approfittando di una licenza sorvegliata. Ormai sapevo<br />

come arrangiarmi e dove trovare ospitalità. Ero uno del «giro», un ragazzo di vita. Ne<br />

passò del tempo, prima che mi bruciassi le ali, con l'Abarth di Walter Chiari. Un<br />

«Vincenzo», un regolare - ma, allora, non lo sapevo - che s'atteggiava a balordo, la<br />

voleva. Sbavava per quelle ruote a raggi e per gli altri accessori. Li avrebbe montati<br />

sulla sua utilitaria. Era un lavoretto senza troppi rischi. Accettai. Cuccai la macchina<br />

e la portai al «Vincenzo». Lui, dopo un po', «si fece bere». Lo arrestarono, insomma.<br />

E «andò subito al secchio», cantò. Totale: undici mesi di San Vittore. Dentro, mi misi<br />

a lavorare: una grossa azienda di apparati elettrici ha un reparto in carcere. Cinque<br />

ore di trancia al giorno e una falange tagliata di netto, per centosettanta lire<br />

quotidiane. Anche lo sfruttamento deve essere un sistema di redenzione. Quando mi<br />

lasciai alle spalle via Filangieri, avevo ormai superato i ventun anni. Non mi toccava<br />

più ritornare a Pallanza. Ero definitivamente libero. Tentai di farla finita, di campare

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