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ASSASSINO” DI PIAZZALE LOTTO - Misteri d'Italia

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squadrata. Gli occhi sono chiari, di ghiaccio, molto infossati. Ha capelli biondi, ma li<br />

porta rasati alla «marine». Centimetro più centimetro meno, siamo alti uguali. Non è<br />

il mio sosia, s'intende. Comunque, appartiene alla mia stessa categoria somatica. È un<br />

dato di fatto. Se ne accorgono anche gli avvocati. Nardi ha ventitré anni. Lo si nota<br />

subito, non deve aver mai patito per comprarsi la macchina, la moto, i soldi. Ha la<br />

baldanza, la scioltezza di chi ha succhiato dal seno materno la sicurezza del denaro. È<br />

tranquillo, sicuro di sé, scostante. È qui a controbattere un'accusa almeno di<br />

favoreggiamento in omicidio e sembra esserci per caso, come a sbrigare una<br />

faccenduola. Ascolta la lettura della deposizione di Marcello Dal Buono, senza dare<br />

in smanie d'indignazione.<br />

«Proprio non capisco», dice, «perché Marcello racconta queste fandonie. È tutto<br />

falso. Non abbiamo mai parlato di rapine, non abbiamo mai avuto armi e tanto meno<br />

io gli diedi due canne di pistola da far sparire. Eravamo amici e ci si vedeva per<br />

parlare delle nostre cose, anche di politica. Poi smisi di frequentare Marcello. Era un<br />

tipo un po' strano, instabile. Pensi, signor presidente, che era arrivato al punto di<br />

sostenere anche di avere inventato una macchina per fabbricare l'oro».<br />

La storia dell'oro va a segno. La gente scoppia in fragorose risate. Stai a vedere che<br />

Dal Buono me lo fanno passare per pazzo, per mitomane, e addio. La ridarola si<br />

placa.<br />

«Nel vostro gruppo», continua il presidente, «c'era un certo Roberto?».<br />

«Non posso essere preciso. Sa, andavano e venivano molti ragazzi, come succede in<br />

tutti i gruppi. Forse, si tratta di Roberto Rapetti. Abitava nella zona di Baggio. Deve<br />

essere stato ricoverato in una clinica per malattie mentali. Sì, può essere stato anche<br />

mio amico. Comunque, nego assolutamente che mi abbia confessato di essere l'autore<br />

del delitto. Dalla primavera del 1967, non ci siamo più incontrati».<br />

Adesso tocca a Giancarlo Esposti. È uno studente di ingegneria. Vive fra Lodi e<br />

Milano. Dall'aspetto, anche lui non deve avere mai avuto problemi di portafoglio.<br />

Non sembra per nulla intimorito. Adotta subito una tattica più flessibile dell'altro.<br />

Respinge sdegnosamente le «fantasie» di Marcello : mai pensato a rapine, mai saputo<br />

qualcosa sul delitto di piazzale Lotto. È categorico nello smentire di aver conosciuto<br />

«Roberto il parò». Ma ammette: «Eravamo un gruppo di estrema destra. Quanto alla<br />

pistola, non ho mai posseduto una Beretta a canne intercambiabili. Avevo una<br />

Browning». Nel proporre ai giudici un Marcello che «non ci sta con la testa», è abile<br />

come e più di Gianni Nardi.<br />

C'è un abisso fra le tre posizioni e il presidente decide un confronto fra i testi.<br />

Ognuno resta ancorato alla propria versione. Marcello ribadisce, punto per punto, il<br />

suo racconto. I due negano, alternando i sorrisi alla commiserazione. Trasecolano,<br />

non lo prendono sul serio, hanno un tono suadente come si fa con i pazzi. Ritorna<br />

fuori la faccenda dell'oro. Altro scroscio di ilarità. «Non è vero», spiega Marcello.<br />

«Non ho mai detto di avere inventato una macchina per l'oro. Mi dilettavo di chimica<br />

e avevo studiato il modo di fondere leghe di similoro. Non c'è magia, è normale<br />

tecnica».<br />

Gianni Nardi e Giancarlo Esposti hanno ricamato intorno all'amico un alone di<br />

mitomania, di rotelle mancanti e hanno trovato un tribunale che non chiede di meglio.

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