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<strong>Journal</strong> <strong>of</strong> <strong>Italian</strong> <strong>Translation</strong><br />
aperta mi dava un brivido di sguaiatezza, un sussulto che irritava<br />
le mie orecchie e il mio gusto, la mia sensibilità, il mio senso estetico.<br />
Gli amendolaresi per me erano barbari; non mi ero reso conto che<br />
verbum ha la radice di veritas e che non esistono errori all’interno<br />
dei sistemi linguistici o meglio, “ogni errore è in realtà logico o<br />
piuttosto esistenziale”.<br />
E allora come trasferire questa verità unica e assoluta della<br />
poesia, della mia poesia, in un’altra verità altrettanto unica ed<br />
assoluta?<br />
Ecco, è sul come che bisogna trovare un punto di coincidenza,<br />
un accordo minimo, almeno, visto che love è diverso da amore e<br />
che book è così lontano da libro, senza ricorrere ad esempi lessicali<br />
di lingue lontanissime tra loro. O forse la verità è quella della<br />
vecchietta che in chiesa pregando inginocchiata e battendosi il petto<br />
diceva al alta voce rivolta all’altare: “gnettò, gnettò” e che il poeta<br />
paragonò alla Preghiera alla Vergine di Dante Alighieri del<br />
trentatreesimo del Paradiso, o è quella dell’ubriaco di Kafka che si<br />
poneva il problema se chiamando la luna sole o viceversa sarebbe<br />
cambiato qualcosa nella sostanza. È sempre valida l’affermazione<br />
latina nomina sunt consequentia rerum? Bisognerebbe rileggere alcuni<br />
scritti di Heidegger sull’argomento per vedere se nel mondo<br />
moderno c’è ancora una traccia del nomina numina o se invece ormai<br />
si divaga in nome di un’ambiguità che via via da polisenso è<br />
diventata inciso, digressione.<br />
Perfino “come tradurre se stessi” pone problemi che, dopo<br />
conflitti e incertezze, alla fine si risolvono non secondo regole o<br />
principi, ma secondo sentire, secondo umore o psicologia. A parte<br />
esempi di traduzione di se stessi bilingui o trilingue (Canetti,<br />
D’Annunzio, Wilcock, Bandini) c’è la tradizione dei poeti dialettali<br />
e in dialetto che da sempre hanno sentito, si può dire, l’esigenza di<br />
<strong>of</strong>frire accanto al testo originario anche quello in lingua. Le ragioni,<br />
abbastanza ovvie, sono di carattere pratico: in genere i parlanti<br />
dei dialetti si contano (fatte le dovute eccezioni) in poche migliaia<br />
e allora, per far arrivare il più lontano possibile la propria voce, si<br />
preferisce mutarla anche nella lingua ufficiale. Non lo ha fatto<br />
Singer per lo yiddish, e dicono alcuni che si sia trattato della<br />
“sacralità” di uno scrittore fedele alle atmosfere, agli umori, ai<br />
sapori, alle mille sfumature di un mondo che in inglese, lingua<br />
conosciuta molto bene da Singer, non avrebbe trovato, per quanto<br />
gli riguardava, l’adeguato riscontro. C’è da aggiungere che tra<br />
l’altro i suoi sono testi narrativi. Ha preferito che il compito lo