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<strong>Journal</strong> <strong>of</strong> <strong>Italian</strong> <strong>Translation</strong><br />
ciò che lo ha spinto a farsi scrivere, a realizzarsi in un determinato<br />
modo, eppure, se da un testo si sposta appena un aggettivo (come<br />
ho già accennato), tutto diventa altro da sé e principia una nuova<br />
ragione di poesia. L’esempio, diventato classico, è l’incipit foscoliano<br />
di A Zacinto: “Né più mai toccherò le sacre sponde”. Se diventasse,<br />
per esempio, “Non toccherò mai più le sacre sponde”, avrebbe<br />
una valenza assai diversa, acquistando il verbo toccare un rilievo<br />
che in Foscolo non vuole avere e dove le tre negazioni iniziali<br />
assumono la consapevole ferocia di una condanna.<br />
Vorrei farmi capire meglio con degli esempi personali. “Me<br />
l’hanno lasciato in eredità è altra cosa da “M’àne gassète”, tuttavia<br />
apre la finestra sulla sostanza originaria, permette l’approccio,<br />
l’avvicinamento. E la traduzione dal dialetto di Roseto è mia, ma<br />
se avessi preteso di trasmettere la totalità del senso e della musica<br />
e la determinazione dell’incanto poetico, non avrei potuto che<br />
tradurre ripetendo pedissequamente. Il che è un’assurdità. “Non è<br />
l’oscurità della sera” che è traduzione di “Non jèd’u scùreche da<br />
sère” è un altro piccolo esempio di impossibilità a trasferire, sic et<br />
simpliciter, da una lingua all’altra: “u scùreche” è maschile in<br />
dialetto rosetano, ed ha una sua immagine forte popolata di<br />
fantasmi, di storie di briganti e di efferati delitti, di misteriose creature<br />
che vagano e compiono magie; “l’oscurità”, invece, per usare<br />
un ossimoro, è buio solare, voce femminile penetrabile con una<br />
certa facilità.<br />
Mi viene in mente una mattinata trascorsa a casa di Alberto<br />
Moravia che, sottoposto ad una sfilza di domande, mi rispondeva<br />
senza calore, senza passione, quasi stesse assolvendo a un compito<br />
non piacevole. Ci interruppe la cameriera portando su un vassoio<br />
enorme la corrispondenza consegnata pochi attimi prima dal<br />
postino. Tra le tante lettere e i tanti pacchetti ce n’era uno arrivato<br />
dalla Cina, se non ricordo male, o dalla Corea. Moravia lo aprì con<br />
curiosità: era la traduzione del suo romanzo 1934. Girò e rigirò il<br />
volume tra le mani con un sorriso sornione e poi lo scaraventò nel<br />
cestino dei rifiuti all’angolo del salotto. Io rimasi sbalordito e lui,<br />
visto il mio stupore, mi spiegò che essendo una traduzione quel<br />
libro non era suo, non era stato scritto da lui. Non opposi nulla,<br />
ma pensai molto al suo gesto: forse aveva voluto essere soltanto<br />
stravagante e tuttavia conteneva molta verità e, badate, non si<br />
trattava di un libro di poesia.<br />
Come facevano gli antichi a comunicare? Mandruzzato ci<br />
ricorda che “L’uomo arcaico vinceva la sua ripugnanza per i